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Relazione tra poesia e filosofia

Il tema è molto ampio, questo del rapporto tra poesia e filosofia e siamo costretti anche a risalire un po'alle origini di questo rapporto per comprenderne anche. la situazione, la collocazione attuale, quindi cercherò di sintetizzare e di seguire un filo il più breve possibile. Ma però è necessario partire da quella origine del problema che nella nostra civiltà è imposto dal discorso di Platone, che appunto come credo molti sanno pone una, lui dice, una palaia di afora, un'antica differenza tra poesia e filosofia, intendendo per poesia non soltanto l'arte della parola, ma anche l'arte della parola.

ma anche del canto, della danza, d'altra parte per lui appunto allora non vi era una poesia soltanto scritta, la poesia era una poesia cantata ed era una poesia che si accompagnava sempre comunque a musica e a danza. Poi è un'antica differenza, una menzogna dice Platone, è chiaro, è una menzogna, non c'è nessuna antica differenza. L'antica differenza semmai è quella tra...

Uomini e Dei, quella narrata da Esiodo nella Teogonia, quella è una vecchia crisi, una vecchia rottura. Ma questa, come fai a dirla, palaia. Fino a tre generazioni prima i filosofi scrivevano in versi che probabilmente non erano cantati, ma erano pure cantati. Senofane è un cantore, un aedo. Perché?

palaia diafora perché nella filosofia platonica questa differenza è una differenza radicale, è una differenza originaria non nel senso cronologico ma nel senso teoretico, nel senso metafisico, in questo senso Platone dice palaia diafora. Però nello stesso tempo dice che il rapporto è un rapporto di ospitalità perché proprio in quel passo della Repubblica dove Platone poi dà il bando ai poeti e vedremo qua quali poeti dalla sua città, chiamiamola così, ideale, e in quello stesso luogo Platone apostrofa i poeti con il termine di illustri ospiti, illustri ospiti, cioè i poeti sono illustri ospiti, xenoi, che vuol dire straniero, ma ospite. Quindi abbiamo un rapporto. Un rapporto di ospitalità tra poesia e filosofia per Platone e nello stesso tempo vi è una radicale differenza, una differenza originaria.

Palaia di Aforà. Perché? Cerchiamo di vedere allora il senso di questa critica, perché è fondamentale, perché poi come vedremo ce la tiriamo dietro. Ricorriamo costantemente ai termini. chiamiamola così, della polemica platonica.

Il primo aspetto, perché la poesia, poiesis, che in greco vuol dire in generale fare, ma Platone specifica nel simposio, quella forma del fare, intendiamo per poesia, ora, non il fare in generale, ma quella forma del fare, che riguarda il caso. tanto la musica, la danza. E potremmo aggiungere poi, in base a certe pagine della stessa Repubblica, anche la pittura.

Allora, la prima ragione di questa differenza, perché... Questa poiesis, questa chiamiamola poesia, non è fondata su una pro airesis, per dirla con Aristotele, cioè su un progetto razionale, su una intenzione razionale. Il prodotto della poesia non è il prodotto di un percorso, di un progetto, di un'idea e poi un percorso, noi chiameremmo propriamente progettuale.

La poesia ha a che fare con una mania, lasciamo perdere per il momento se questa mania sia divina o soltanto umana, è mania. Cioè è una forma di invasamento, è una forma di follia, è una... L'ispirazione diremmo noi che guida il fare della poesia, l'ispirazione non è un fare progettuale, un fare pro-aeretico per dire il termine che poi sarà proprio della filosofia aristotelica.

Quindi non avendo a che fare con quella intenzionalità che è propria di tutte le altre tecniche, perché tutte le altre tecniche invece sono pro-aeretiche, Che luogo può avere nella città, nella città dove appunto il dominio, il governo deve essere della ragione e di quelle tecniche che sono capaci di dar ragione a se stesse, di dar ragione a se stesse, di spiegarsi, di spiegare come funzionano, di spiegare il loro senso, il loro significato. Come fa? il poeta, l'oione di Platone, un dialogo di Platone in cui emerge il cantore, il poeta che tutto sommato non sa da spiegazione di ciò che dice, non sa spiegare ciò che dice. Mania, naturalmente un grande tema se questa mania è divina, viene dagli dèi o non viene dagli dèi, ma ai fini del nostro discorso questo non interessa molto.

Secondo aspetto fondamentale. della critica perché i suoi prodotti i prodotti di questa poesia dell'arte noi potremmo dire in generale perché qui vale anche per la pittura l'architettura è un'altra questione in Platone e in tutta la Grecità perché i suoi prodotti hanno l'apparenza di imitazioni ma non lo sono e come faccio a imitare qualcosa che non conosco questo pittore dipinge un letto ma è un'imitazione del letto letto niente affatto perché che cosa ne sa del letto il pittore e se non sai nulla di qualcosa come fai a imitarlo parate qui c'è un equivoco a cui si continua a tornare al popolito di platone intendendo la sua critica delle arti come una critica della mimisi insensatezza totale platone tutto il cosmo platonico tutta la filosofia platonica è retta dall'idea di mimisi di mettessi quindi non può essere una polemica contro una tecnica mimetica. E l'opposto, cioè l'arte viene criticata perché non è mimesis, finge di essere mimesis. Il pittore finge di imitare il letto, ma non imita un bel niente, crea un fantasma di letto che non è un letto, non è letto.

La pipa non è una pipa, finge l'imitazione, ma non è imitazione. L'imitazione mi andrebbe bene, andrebbe bene perché tutta la città è retta sull'imitazione, la città stessa è imitazione dell'idea, dell'idea di giustizia, dell'idea di bene, la città stessa è imitazione. Fingono di imitare, in realtà cosa esprimono? Esprimono un pathos individuale, questo è, esprimono un pathos individuale. Non dicono le cose come sono in verità, cioè non le imitano, ma esprimono il proprio pathos.

Cioè non propriamente cose false, perché non si può dire che esprimano il falso, fingono piuttosto, sono finzioni, fingono l'imitazione. Non dicono il falso, fingono l'imitazione e perciò seducono, ingannano. Seducono, è tecne apatitiche, che vuol dire apate in greco, vuol dire sedurre e ingannare insieme.

Seducono, guarda che bella imitazione, non lo è, ti seducono, ti ingannano. Non è propriamente dire il falso, il sedurre, l'ingannare, ma esprimere appunto il proprio pathos. personale, personale. In un senso ancora più radicale potremmo dire per Platone, il poeta, l'artista e il poeta finge di dire la cosa, leghe in legge, di dire qualcosa.

E il linguaggio ha senso soltanto quando dice qualcosa, quando ha un contenuto determinato. In realtà non dice qualcosa. Non dice qualcosa.

Il linguaggio non è in rapporto con la cosa. Il contenuto di questo linguaggio poetico non è un contenuto reale. Nella Repubblica emerge la parola fantasmata.

Il contenuto di questo linguaggio sono fantasmi. Sono fantasmi. E allora, se è così, il pathos che questa poesia esprime non ha alcun valore, alcuna valenza educativa, cioè non insegna nulla. Perché l'espressione del pathos che cosa può insegnare?

Insegnare di universale, insegnare che ci accomuna tutti, nulla. Quindi non dice qualcosa, il linguaggio che dice qualcosa è un linguaggio. Il linguaggio che insegna è un matema, ma il linguaggio che esprime il pathos personale non può insegnare nulla, non può educare.

E'fondamentale capire bene questo, perché è il punto in cui Platone consapevolmente polimizza contro la parola chiave, l'espressione chiave della sapienza tragica, nella gamennone, nel grande coro della gamennone. a me non è attraverso la sofferenza pathe, matos attraverso la sofferenza la dottrina, l'insegnamento si capisce si comprende, si impara solo attraverso il patos la sofferenza questa è la parola chiave l'espressione chiave della sapienza tragica Platone appunto si oppone radicalmente la differenza originale con questo essenzialmente, con la tragedia e soprattutto con la tragedia euripidea, perché per Sofocle il discorso sarebbe diverso, ma qui non abbiamo il tempo di svilupparlo, ma soprattutto con l'ultima tragedia, con l'ultima espressione della tragedia e con il canto e con la musica che si accompagnavano a quella tragedia, che giocavano tutte sul pathos, tutte sull'emozione, tutto sul sentimento e mancavano di metro, erano espressioni della... ametria dell'ametria il ritmo, la musica eccetera delle ultime tragedie avevano questo, le baccanti anche il logos delle baccanti aveva questo era pregno di questa di questo dionisiaco di questo dionisiaco mancanza di metro mancanza di misura quindi non tutta l'arte viene criticata ma solo quella appunto che non rappresenta che non si esprime Prime metricos, secondo misure, secondo metri, secondo proporzioni, secondo simmetria, secondo rapporti definiti.

Ancora Aristotele dice che il bello ha queste caratteristiche fondamentali per essere tali, di misura, di simmetria e di definizione, di determinatezza, to oris menon. Bello è tale quando io lo posso comprendere con uno sguardo compatto, integro. Calos. Quell'arte va bene, va bene quell'arte, ma non è l'arte tragica che pretende di imparare, di insegnare e di imparare attraverso il pathos.

Queste sono le ragioni fondamentali che parlano, che conducono a definire quella antica e originaria. differenza. Quindi non soltanto questa poesia inganna, seduce eccetera, ma proprio porta al Il colossale equivoco, chi l'ascolta, chi ne è paziente, porta al fondamentale equivoco di intendere, di sedurre dal percorso.

Un percorso davvero educativo che è quello tracciato dalla Repubblica, un percorso davvero educativo che parte proprio anche dalla educazione dello stesso corpo fino alla contemplazione delle idee e della somma idea, del sommo matema che è quello del bene. Quindi la diafora va condotta fino in fondo a questa poesia, va dato il bando. Con Aristotele questo cambia completamente, Aristotele non è più assolutamente interessato a questo dramma platonico, questo drammatico faccia a faccia ai ferri corti con la poesia, io direi, tragica, con la sapienza. tragica. Aristotele analizza, sistema, nella sua poetica in particolare questo è evidente, cerchi i principi strutturali del fare poetico, abbiamo la parte che riguardava la tragedia, abbiamo quella che riguardava la cosa.

come sanno tutti i lettori di Umberto Eco, ma lui sistema, analizza, questo grande dramma platonico non gli interessa più, e invece nella nostra cultura continua. Direi proprio nel nostro senso comune, poi la nostra cultura proprio in senso antropologico, riaffiora continuamente questa lotta tra i due ospiti. Ospiti e nemici, ostes e ospes insieme. La filosofia, quante volte la filosofia esce fuori, tu poesia sei una cognizio minor, come dicevano i medievali. Se non sei proprio una tecne a patetiche, se non seduci, se non inganni, sei mera fantasia, no?

Fantasia, quante volte lo sentiamo ancora? a dire, ma questa è poesia, in quanti dibattiti televisivi salta fuori l'idiota dicendo è poesia, è fantasia, o se non è filosofia, è continuo, ma l'idiozia ha radici profonde, come l'intelligenza, non è una cosa episodica, è una cosa che rimane, una cosa che resta, è una cosa persistente, insistente, sono due facci inscindibili. Idiozia e intelligenza, mai disprezzare l'idiota perché significa automaticamente anche disprezzare l'intelligente.

Il tuo linguaggio non ha potenza, non ha la potenza della categoria, della definizione e dunque è superfluo, può essere un divertimento, è un divertimento, è un passatempo, è un'attività a cui ci deduchiamo durante... la bella stagione quando facciamo i turisti no quella è non è così perché in positiva? perché non imparo niente non imparo una tecne Non imparo a definire qualcosa, non è un lega in ti, non è un dire qualcosa. È un momento in cui ci dedichiamo i nostri sentimenti.

Ci piace, diciamo così. Oppure dall'altra parte appunto il poeta invece che cosa dice il poeta? No, è vero che io non definisco, è vero che il mio logos non è un legge intice ma è comunque una dimensione essenziale del nostro esserci. è una manifestazione essenziale, non è qualcosa di superfluo che può passare, no.

È una dimensione sostanziale del mio esserci che tu filosofo, che tu nel tuo linguaggio, nel tuo dire filosofo non puoi rappresentare, non puoi esprimere. Quindi una poesia che rivendica la necessità spirituale dell'arte. E non c'è questo polemos continuamente nella nostra cultura, nella nostra civiltà. Lo incontriamo in tutti i modi, dal senso comune fino al più alto pensiero. A Hegel, no?

Cosa dice Hegel? E'quello che rivendica di più la necessità spirituale dell'arte, proprio Hegel dice l'arte è la rappresentazione del sommo, del supremo sensibilmente. Sensibilmente, sensibilmente, è la rappresentazione sensibile della cosa più alta, dell'idea più alta, delle idee più alte, ma rappresentazione sensibile.

Dunque è necessaria l'arte, ma un momento. In Hegel c'è quasi la sintesi delle due prospettive. No, no, l'arte è l'espressione del più alto, del sommo, ma sensibile, ergo un momento del divenire dello spirito. Un momento, cioè qualcosa che passa è necessaria. Perché nel divenire dello spirito tutte le tappe sono necessarie, ma è un momento.

Necessariamente c'è stato, necessariamente è, ma adesso siamo in un'epoca, in un'età dello spirito in cui non è più necessaria l'espressione sensibile del più alto, della cosa ultima, della cosa più alta. Perché siamo in grado di esprimerla, la cosa più alta. concettualmente, cioè di saperla, non di intuirla esteticamente, sensibilmente, ma di saperla. Ne abbiamo il concetto. Dunque l'arte, certo, l'idea di morte dell'arte non è di Hegel, Hegel da nessuna parte ha parlato di morte dell'arte.

L'arte può continuare. L'espressione sensibile può continuare e magari continuare a dire sensibilmente la cosa più alta, ma è un trapassato perché a questo punto io la cosa più alta la so. So lo stesso Dio, dice Hegel, no? Non c'è più nessun mistero in Dio, te l'ho spiegato. La Santissima Trinità, te l'ho spiegata.

Non c'è più nessun mistero in Dio, si sa. Siamo in un'epoca in cui il wissen, la wissenschaft, il sapere, il sapere scientifico, il sapere concettuale può tutto. Ergo, la rappresentazione sensibile del più alto. continua ad essere la rappresentazione del più alto ma la sua forma non è più necessaria.

Quindi l'arte appare una sorta di trapassato. Continua quanto vuoi arte, puoi continuare quanto vuoi, nessuno decreta la tua morte, nessuno ti dà il bando come Platone dalla polis. Ma e neppure posso dire che sei superflua perché tu rappresenti sensibilmente il più alto ma la tua rappresentazione, la tua forma non è più necessaria. La forma con cui rappresenti il più alto, la cosa ultima è trapassata, perché siamo nell'epoca della scienza. E non è mica roba da poco, facciamoci un po'di esamini di coscienza, quanti di noi non pensano così?

E cioè, o noi, e sarà la seconda parte di questa mia chiacchierata, o noi riusciamo in qualche modo a concepire la sostanzialità, dell'arte oppure non ce la possiamo sbrigare facilmente da queste posizioni, né da Platone né tantomeno da Hegel, che sono le due somme concezioni dell'arte nella nostra civiltà, le due più complete, le somme dal punto di vista sistematico, perché ripeto, le altre sono sistemazioni analitiche, certo possono spiegarmi bene come è strutturata una poesia, come è strutturato un romanzo, come è strutturata una pittura. ma non vengono alla questione, è sostanziale tutto ciò o no? O la sua necessità è una necessità, rimane necessaria, ma una necessità che indica un momento, un necessario momento nella fenomenologia dello spirito, nella esperienza della coscienza.

E guardate che questa idea dell'arte come trapassare, pensiamoci un po', dell'arte come un trapassante, trapassato, trapassare, e beh guardate che è un elemento... strutturante dell'arte contemporanea, no? Non vi pare?

Il terremotus che ha coinvolto l'arte europea occidentale negli ultimi due o tre secoli, dal manierismo in poi tutto sommato, no? Non indica qualcosa, non ha a che fare con questa grande idea di Hegel. L'arte, il timbro futurista dell'arte contemporanea non ha a che fare con questo. Questo timbro futurista non diceva che l'arte era un passato, non era elemento strutturante dell'estetica futurista questo. Grazie.

Certo l'arte è bella, l'arte sì, ma l'arte... E non è un po'come in questo terremotus che ha coinvolto l'arte contemporanea, non è sempre un po'come l'arte vivesse continuamente la propria morte. Questo interrogativo sulla propria essenza non è un elemento caratteristico e costitutivo della grande arte contemporanea, dell'arte consapevole, dell'arte pensante.

Certo può avere espressioni tragiche, può avere espressioni comiche, ma anche nell'antichità tragedia e commedia erano insieme. Alla fine del simposio Socrate non dice questo, Platone non dice questo. tragedia e commedia vanno intese insieme vanno intese come due facce di un insieme di un complesso e di una medaglia e vi inviterei a riflettere su questo aspetto a leggere certe espressioni dell'arte, molte espressioni e forse le fondamentali espressioni dell'arte contemporanea, alla luce dell'idea di Hegel non della morte dell'arte ma dell'arte, dell'espressione artistica come di un trapassare di un linguaggio che ha sempre a che fare con la propria morte, col proprio morire meglio, col proprio morire verbum, verbum agentis e allora anche Ha ancora senso porsi il problema della necessità della poesia nei termini appunto all'altezza in cui questo problema se lo ponevano i Platone e gli Egel? E ripeto, questa domanda viene immediatamente esclusa se ci limitiamo a dire a me interessa che tu mi spieghi la struttura di una poesia, la sua forma, di questo quadro, di questa musica eccetera eccetera, a prescindere appunto da questa domanda.

Se l'impostazione è quella diciamo aristotelica, analitico aristotelica, la domanda può essere immediatamente, beh si dà, c'è poesia, c'è arte, continua a darsi, bene, infine, siamo contenti. Ma forse la ragione per cui anche ci interroghiamo su questo, ci interroghiamo su queste forme espressive, su queste forme di rappresentazione, su queste forme del dire, ha a che fare invece con il problema. che i nostri grandi padri avevano sollevato.

Proviamo a vedere se è possibile indicare una traccia per sostenere la sostanzialità della poesia di fronte alla filosofia e stabilire un rapporto di... Autentica ospitalità tra i due illustri ospiti. O se invece dobbiamo arrenderci a una concezione puramente, come dire, aristotelica, analitica del fatto. Il fare della poesia. Il fare del canto, la poesia, a mio avviso, si colloca all'interno di quello che potremmo dire l'enigma.

più radicale che sta nel nostro bene, noi uomini dotati di logos. Diceva Heidegger, è più pericoloso dei nostri beni il linguaggio. Questo bene, il linguaggio, la filosofia e la scienza.

che io metto sempre insieme. La filosofia e la scienza sono originariamente una stessa parola e tale devono restare. La filosofia e la scienza...

La usano per pervenire, per quanto è loro possibile, ad una definizione. Non è così. È così. Qualsiasi significato si dia al termine definizione.

Si può dare un significato esaustivo. Cognitivo, totalizzante, così come probabilistico, statistico, a seconda delle nostre propensioni filosofiche. Ma quello che è certo è che il filosofo e lo scienziato si mettono a cercare qualcosa per giungere a definirla. Per giungere ad una legge, per giungere ad una definizione coerente, cioè il linguaggio all'interno della nostra vita.

Il linguaggio di filosofi e scienziati è un linguaggio operativo, è un linguaggio con cui operiamo in funzione e al servizio della definizione di qualcosa. Siamo sempre lì, a Platone, per dire ti qualcosa, per affermare coerentemente qualcosa di realmente esistente. Ed ha valore questo linguaggio nella misura in cui giunge alla definizione.

Se no non ha valore, cesse di avere valore. Poiché la definizione possa essere di nuovo a sua volta messa in discussione, in dubbio, eccetera, eccetera, non muta nulla, perché ogni volta la nostra ricerca sarà la ricerca per dire qualcosa, e per dirlo nel senso del categoreuin, Aristotele, per definirlo secondo categorie. E questo quindi il linguaggio in filosofia e scienza è necessariamente considerato e visto come un mezzo, uno strumento indispensabile. e debbo costruire, cioè architettare questo strumento al suo interno nel modo più logico, nel modo più coerente, in modo da evitare ogni possibile... E'un possibile equivoco nella mia comunicazione.

Ma il problema è che il linguaggio non è strumento, non è mezzo. Questo è il problema. Che la filosofia e la scienza debbono necessariamente mettere tra parentesi per funzionare bene. Non è una critica né a filosofia né a scienza.

Per funzionare bene esse debbono usare il linguaggio. Non è possibile usare del linguaggio come mezzo e come strumento. Un mezzo e uno strumento il più possibile liberato da ogni equivoco, da ogni possibile fraintendimento, da ogni possibile interpretazione equivoco o fraintendente. Ma il linguaggio non è mezzo, non è strumento. Questo è l'enigma che è vissuto nella poesia, che la poesia manifesta.

E ci ricorda costantemente, manifesta costantemente, ci ricorda costantemente che il poeta ci mostra continuamente che noi apparteniamo al linguaggio, non che nel linguaggio ci appartiene come mezzo e come strumento. L'evento della poesia è la manifestazione, diceva Heidegger, dell'eragnes, dell'appartenersi, del coappartenersi originario. tra esserci, il nostro esserci e il linguaggio. Questo appartenersi è originario ma affonda dove? In un fondamento?

Ha un fondamento che io posso misurare, che io posso vedere, che io posso toccare? No! Qual è questo fondamento originario per cui io e il linguaggio, il mio esserci e il linguaggio si coappartengono?

L'evento è Reignis. L'evento originario del coappartenersi, stessa parola, eragnes, l'evento originario del coappartenersi del mio esserci con il linguaggio, dov'è? È il fondamento, ma dove sta questo fondamento? Non è un fondamento come quello che trovo, intuisce e tocca la filosofia e la scienza quando arriva ad una legge, che sia una legge della natura, che sia la legge in base alla quale io tengo logica.

Logicamente articolo, logicamente quel mezzo che è per la filosofia e la scienza il linguaggio. Questo Eragnis non è un fondamento di quel tipo, sta non in un grond ma in un abgrond, sta nell'abisso. E cosa fa la poesia se non evocarlo costantemente? Nessuna parola del linguaggio ha una radice ultima.

Qual è la radice ultima di qualsiasi parola? parola che usiamo, chi la sa indicare? Ah questa radice, l'etimo, è latino, bene, poi e poi e poi?

Dove si coappartengono il mio esserci e questa parola che uso? Dove sta l'origine di questa parola? Il poeta evoca tutto ciò, lo richiama, lo ricorda, lo riporta al tuo cuore quando tu leggi una poesia. Cioè ricorda costantemente questa cosa essenziale. che il linguaggio non è mezzo, a differenza di quello che continuiamo a ritenere nella vita comune, dove continuamente lo usiamo come mezzo, come strumento.

La filosofia e la scienza lo usano come strumento coerentemente, noi lo usiamo come strumento incoscientemente. E non è... Proprio il nostro Vico che in particolare ci ricorda questo, che nessuna parola del linguaggio a radice ultima affonda nel suono, no? Il canto affonda nel suono e oltre ancora al suono nel silenzio perché ogni parola emergerà come suono ma il suono emerge dal silenzio.

Il risuonare della parola da e nel silenzio è costitutivo del dire poetico, no? Noi lo avvertiamo, lo sentiamo appena, E lo pensiamo questo fare e lo pensiamo nella sua sostanzialità, non soltanto come un elemento di divertimento, di svertere, in cui ci sottragliamo dalle cose che contano. Da ciò deriva anche l'oscurità della poesia.

Questa oscurità della poesia non è altro che la chiarezza nella vera poesia con cui appare, come ogni parola della poesia, indichi questa originaria archè. questo principio che sfugge ad ogni determinazione, necessariamente sfugge ad ogni determinazione, il coappartenersi del mio esserci con il linguaggio. La poesia indica, indica...

Indicare, dire, il dire della poesia, dire, indicare, dictung, dito. La poesia indica, fa segno, il semainen della poesia, fa segno costantemente a quest'archè, a quest'origine che sfugge necessariamente ad ogni definizione, ad ogni determinazione. Il termine in cui i tedeschi dicono poesia, dictung, indica proprio questo, è proprio l'indicare.

Il dettare indicando, l'indicare dettando, dettare ciò che si indica. E a questa archea apparteniamo, essa non ci appartiene, non sarà mai nostra, non sarà mai compresa nel nostro discorso. La poesia suscita proprio questa emozione precisa, chiara, se è grande poesia, l'emozione precisa, chiara. un'emozione sentimentale, precisa, chiara, di questa archè che sta nell'oscuro, ma suscita la poesia l'emozione precisa e chiara che l'archè sta nell'oscuro. Non un'emozione sentimentale, non il mio cuore messo nudo, la poesia non ha niente a che fare con queste manifestazioni, la poesia è l'espressione chiara di questo archè che chiaramente sta nell'oscuro, che chiaramente sta nell'ascuro.

chiaramente non può essere definito e determinato. La poesia è ascolto di questa eragines, è ascolto di questo eragines, è la sua manifestazione, è colloquio con questo. La poesia colloquia con questa origine. Parola per parola cerca, parola per parola, di indicarla. Ogni parola è un indice, ogni parola è un indice.

Indicazione, ogni parola è un semaine. Ed è in colloquio con questo Ereignis e suscita l'emozione di questo colloquio. Ma è un'emozione chiara, non è l'emozione pathos che nulla insegna di cui la critica platonica. È un pathos che davvero insegna, che davvero insegna, di nuovo lo ripeto perché questo è essenziale, che al linguaggio apparteniamo, non ci appartiene.

Apparteniamo. Apparteniamo. La poesia è ascolto prima di quest'archè, colloquio con quest'archè, ma essendo colloquio vuole colloquio.

Altra questione fondamentale. Vuole colloquio, certo si potrebbe dire anche la filosofia, anche la scienza è in comunità, sì certo, ma è un colloquio diverso. È un colloquio diverso, è un ascolto diverso, è un colloquio completamente diverso perché è un colloquio...

Che io avverto magari come indispensabile ma per arrivare ad una convinzione, perché una volta che giungo alla definizione, lì almeno su quel problema il colloquio finisce. E'quello che ho trovato, sei convinto? Anche nei dialoghi di Platone, il primo elemento di grande colloquio dialettico-filosofico-scientifico, sei convinto?

E lì si tace, no? Il colloquio, l'ascolto della poesia non può tacere lì. perché la poesia essendo costitutivamente ascolto di quella che è, e colloquio della propria parola con quella che è, vuole che il colloquio continui, perché il colloquio è l'elemento necessario e costitutivo della sua forma. Ed è così che avviene, no? Quella poesia che ci ha tanto emozionato, chiaramente emozionato, se è vera poesia, con quella poesia il colloquio continua, quando finisce, quando termina.

Ma non siamo noi soltanto un'interpretazione interminabile, è il poeta stesso che esige questo indefinito colloquio, questo colloquio che non termina. Cioè come sta nell'abisso il fondamento della parola e questo viene indicato dalla poesia, così la conclusione del colloquio che noi abbiamo con la poesia, che la poesia instaura e che noi abbiamo con la poesia, è un eterno futuro, è sempre avvenire, no? È sempre avvenire.

Leggo quella poesia che tanto mi ha colpito. La penso, la medito, ma la penso, la medito già attendendo di ripensarla e rimeditarla. Ora, iam, si dà questo colloquio, ma il colloquio è sempre... come ancora da fare, come un non-dum, come ancora da iniziare, insomma come qualcosa di interminabile, questo è essenziale alla poesia, alla forma e al linguaggio della poesia.

La poesia sta sempre sulla soglia tra il pozzo senza fondo del passato, della parola e quella vita che l'attende come una sorta di eterno futuro. Quando terminerà il mio colloquio con Leopardi? Quando terminerà il mio colloquio con Rilke?

Quando giungerò a una convinzione intorno alla interpretazione di quella parola? Questo non è un discorso vargo, è un discorso precisissimo, è la parola poetica che impone questo, che lo vuole. E'sempre come sempre questa parola, è sempre differita e in questo importantissimo, come ebbe a dire Celan e altri, tende sempre a ammutolire, poiché è silenzio l'origine di quella parola, come dicevamo.

Ma è silenzio anche il colloquio a venire, perché il colloquio a venire è non-dum, non è ancora, quindi sta nel silenzio. La poesia attende un colloquio, un ascolto e un'interpretazione. che ha da venire, ma che per lei è essenziale, perché quell'advenience è essenziale, è costitutivo della sua forma e quindi è sempre come tra due silenzi e quindi tende sempre la persona a essere più attiva.

La parola poetica ha da mutolire, ha da mutolire. E lo fa in modo assolutamente chiaro, perché la parola poetica indica sempre come la parola le manchi. La parola le manchi. Quanto più precisa è l'emozione che desta, quanto più precisa è la parola che usa, tanto più precisa è la parola che usa.

Precisamente la poesia indica come la parola gli manchi. Nessuno credo che l'abbia detto meglio di Ungaretti in questi versi. Quando trovo in questo mio silenzio una parola, lo trovo una parola, ho trovato una parola, mi pare la parola giusta, mi pare la parola giusta.

Ora vedremo in che senso giusto fare la parola. Non può essere che questa parola, e l'ho trovata in questo mio silenzio, scavata è nella mia vita come un abisso. Adesso nel silenzio trovo la parola, nel silenzio trovo la parola, che viene dal silenzio, nel silenzio e può essere la parola giusta finché vuoi. ma scava nell'abisso, cioè scava in ciò che non può essere definito coerentemente o determinato. Il poeta trova, inventa una parola e nella sua vita questa è scavata appunto come un abisso.

Sono queste le parole che la poesia trova. In questo la poesia mostra un problema che la filosofia e la scienza non riescono ad affrontare con precisione. e che però hanno a che fare anche con la poesia e la filosofia, e cioè l'affettività originaria del nostro linguaggio, del nostro dire, del nostro logos.

Nessun dire è puro. Nel dire del canto siamo... costretti a riflettere proprio su questo, non soltanto su quell'archè che abbiamo detto, ma sull'appartenersi reciproco di pathos e logos.

Non c'è nessun logos puro dal pathos. ci fa scoprire quell'affetto che è incoercibile, quell'affetto che ci spinge verso l'abisso della parola e a presagirne l'avvenire, ma che ci domina in ogni atto del nostro parlare, del nostro colloquiare, del nostro ascoltare, del nostro dialogare. Le forme del nostro dire, la poesia manifesta in verità. manifesta che tutte le forme del nostro dire sono affette da qualcosa che rispetto alla coerenza logica del dire sono impure. L'affettività del logos è un grande tema della filosofia contemporanea, che la filosofia contemporanea tra l'altro riscopre proprio per l'attenzione che la filosofia contemporanea dedica alla poesia, che è una caratteristica della filosofia contemporanea.

O di una certa parte della filosofia contemporanea. È nella poesia che si scopre questa affettività del linguaggio. Soltanto nella poesia avvertiamo, sentiamo davvero, patiamo questa somiglianza fino a farsi a volte davvero uguali, l'affilia, l'appartenenza reciproca tra la parola.

Tra la parola che usiamo e l'emozione che accompagna ogni nostro atto linguistico e non. Il pathos che l'accompagna. Dove siamo?

Dov'è che possiamo esprimerci puramente? Dove sta, lo dicevano già certi critici di Cantona, la ragione pura? Dov'è? C'è una ragione che parla.

E allora non dobbiamo diventare coscienti che se la ragione pura è pura, non è vera. parla a che fare con tutto ciò che abbiamo appena detto riguardo alla parola del canto? Soltanto un linguaggio come strumento e mezzo potrebbe essere il linguaggio di una ragione pura. Ma se il linguaggio non è strumento e mezzo, come facciamo a pensare una ragione pura? Non affetta d'altro che dalla ricerca propria, autofatta La poesia manifesta tutto questo e la filosofia nella poesia riscopre la sostanzialità di tutto questo, l'essenzialità di tutto questo.

L'essenzialità e la sostanzialità spirituali. della manifestazione, della rappresentazione che la poesia è. Nulla di vago, nulla di sentimentale. Riconosciamo la sostanzialità spirituale di questa forma del dire.

E forse anche qualcosa di più, che credo tutti noi patiamo, e cioè la poesia esprime questa inestinguibile nostalgia, è inestinguibile questa nostalgia. Nulla di sentimentale, nulla di vago, è una necessità del nostro esserci, cioè di pensare. che si possa pervenire ad una parola che dica la cosa così come la cosa direbbe se stessa.

Non è così, non è un'inistinguibile nostalgia e non è esattamente questo appunto che il poeta indica la necessità, cioè il non venire mai meno di questa inistinguibile nostalgia. Quando parliamo di nostalgia, Quando ci sforziamo di parlare di qualsiasi cosa, al di là dell'ambito strettamente determinato, limitato, che tale deve essere. E questo è in ciò sta la sua forza, la sua nobiltà, no? Della ricerca di definire l'essente, di categorizzare l'essente.

Ma questa è un'isola, questa è un'isola, cante, regione pura. Questa è l'isola, l'isola dell'intelletto. Certo dobbiamo stare attenti ad averne cura, a bonificarla quanto più possibile, ma poi...

Non ha nessun rapporto questo con le forme di vita? Non ha nessun rapporto con altre altrettanto sostanziali modi di esprimere il nostro esserci? Altrettanto sostanziali, dobbiamo definirle la sostanzialità, cioè la necessità.

Ambito specifici, ambiti specifici, limitati anch'essi, certo limitati. Ospiti, ospitalità tra le due dimensioni, riconoscersi reciprocamente tra le due dimensioni, nella necessità e nella sostanzialità spirituale di entrambe, ma nella poesia, alla fine, il suo significato, il suo senso, il suo sapore, l'estetica indiana che insiste sul sapore della poesia. Non è questo.

Non ci dà il sapore di questa inestinguibile poesia. E'una inestinguibile nostalgia che nessun altro linguaggio può darsi, ma possiamo immaginare il nostro esserci privo di questa inestinguibile nostalgia? Quando diciamo che la parola ci manca e soffriamo perché la parola ci manca, eccetera, eccetera, quando non riusciamo ad esprimerci e ad esprimere ciò che vediamo, ciò che tocchiamo, ciò che sentiamo, qual è il senso di tutte queste esperienze?

Se non quello appunto che noi vorremmo. Non saremmo che fosse, per parafrasare Rilke, la fonte a dire il proprio nome, l'albero a dire il proprio nome, l'alba a dire il proprio nome. Il nostro linguaggio è questa nostalgia, non è un ornamento, un indumentum che possiamo metterci sopra e togliere a piacere.

E'costitutivo del nostro linguaggio questa dimensione. rivela, che la poesia manifesta e solo la poesia manifesta e rivela, non la filosofia, non la scienza. La filosofia e la scienza può, in quanto filosofia dell'arte, riflettere su ciò che la poesia rivela, ma non può dirlo, non può in alcun modo farcene avere il sapore.

Se tutto questo ha un senso, vuol dire che la poesia è davvero, come tanti hanno detto direttamente o indirettamente, una leggere la poesia. leggere raccogliere in sé la poesia è davvero una scuola di resistenza una scuola di resistenza una scuola di resistenza nei confronti di quella che la grande ondata soprattutto dello spirito contemporaneo, cioè quella che vuole ridurre il linguaggio appunto a mezzo e strumento, cioè a qualcosa di meramente artificiale, ad una convenzione utile. per informarci chiaramente, non per comunicare, perché la comunicazione essendo ascolto e colloquio ha profondamente a che fare invece con quella dimensione poetica che ha il proprio fondamento.

E'un punto, quell'idea di Reignis, e cioè che noi apparteniamo al linguaggio e non il linguaggio a noi. Cioè una scuola di resistenza contro quella grande ondata che distrugge ciò che il nostro Dante avrebbe dovuto insegnarci se mai, almeno nella scuola italiana, fosse mai stato letto. E cioè quella nobiltà.

della lingua matrice matrice perché tutto ciò che si dice della poesia l'abbiamo detto della lingua matrice di Dante perché soltanto nella lingua matrice tutto ciò che abbiamo appena detto può essere ascoltato E il poeta parla nella lingua matrice, parla nella lingua matrice Petrarca, non parla quando scrive l'Africa in latino. Nell'Africa in latino non sentiamo nulla di tutto ciò che ho detto. Lo sentiamo nei canzonieri, lo sentiamo nelle... Nelle due o tre elegie che Dante ha scritto, sentiamo la Divina Commedia, nella lingua matrice scrive il poeta e tutto quello che ho detto vale nella lingua matrice, che non è lingua meta, è lì che avvertiamo di appartenere al linguaggio. E'lì che comprendiamo che non noi ci siamo costruiti un linguaggio convenzionalmente utile, ma apparteniamo a quelle eragnis, a quel coappartenersi reciproco originario di esserci e linguaggio.

La lingua matrice sono le madri di Goethe, in un passo fondamentale del Faust, l'estremo enigma, Faust, l'uomo faustiano. l'uomo della scienza, l'uomo della tecnica. Dopo aver tutto percorso chiede a Mephistofale di andare alle madri, di andare a proprio quell'origine del linguaggio.

Lì chiede di andare, ma Mephistofale non sa accompagnarlo, non può attingere lì, troppo nel profondo, troppo nel profondo abitano le madri. Ma solo le madri sanno. Non sanno dare alla luce. Solo chi abita nel profondo della madre, la madre sa dare alla luce.

Ma lo scienziato Faust non ha un linguaggio per indicare Dichtung, quel troppo profondo. Non lo ha, gli rimane precluso il linguaggio che dà alla luce il profondo, che fa segno al profondo. e in questo lo dà la luce, rimane precluso alla scienza, alla filosofia. La scienza e la filosofia, la filosofia lo può esprimere come l'ho espresso io.

Ma non è così che si esprime, si esprime nella parola poetica, si esprime nel colloquio nostro con la parola poetica, ma la parola poetica può essere soltanto la parola della matrice. Questa è soltanto la parola che viene evocata nella e dalla lingua madre, che a sua volta proviene dal silenzio, dal suono e dal silenzio. E l'esercizio, proprio anche la tecne della poesia consiste proprio nell'estrarre da questo silenzio, da questo pozzo, da questo abisso scavato nella mia vita questa parola che continuamente indica, fa segno di tutto ciò che qui abbiamo accennato. Questa è una scuola di resistenza rispetto appunto al... all'ethos direi, proprio consuetudine, costume, abitudine che regna ormai nella nostra città.

È una scuola di resistenza nei confronti delle potenze che informano la nostra città, la nostra comunità. È una scuola di resistenza contro il massacro del linguaggio matrice, della lingua matrice, cui assistiamo quotidianamente. È un fatto di importanza.

L'importanza epocale, il massacro sistematico condotto scientificamente della lingua matrice e ritenerla sostanzialmente fonte di fraintendimento, di equivoco. La tendenza esasperata verso una formalizzazione del linguaggio che dovrebbe appunto comprendere insieme la sua vita. in sé la totalità dei mezzi attraverso cui noi comunichiamo. Il massacro del linguaggio della matrice viene perpetuato quotidianamente come idea regolativa quella di una lingua indifferente, sradicata. con la quale potersi informare senza alcun equivoco, senza fraintendersi, un'informazione senza fraintendimenti.

Informarsi, cioè l'opposto di comunicare, ascoltare, dialogare. La parola poetica è scuola di resistenza contro questa deriva, è una formidabile scuola di resistenza. contro questa deriva e custodisce in sé, appunto, custodisce in sé, nel suo perenne trasformarsi, custodisce in sé quella essenzialità, quella sostanzialità. spirituale di cui abbiamo parlato il coappartenersi di esserci linguaggio ma linguaggio delle madri quello è il linguaggio quello è il linguaggio quello è il linguaggio cui apparteniamo non quello che noi inventiamo non quello che noi formiamo per non pretendendo così che non vi sia equivoco pretendendo così perché nessuna ragione è pura, perché l'affettività della ragione è comunque qualcosa di insuperabile. Allora nel linguaggio poetico si custodisce l'antica diafora?

Certo, vi è differenza, ho insistito continuamente sulla differenza tra il linguaggio poetico e il linguaggio che... filosofico-scientifico che mira la definizione, che mira una conclusività, che è essenzialmente esclusa nel colloquio e nel dialogo che la poesia instaura con noi. Quindi la poesia custodisce anche questa differenza. La misura in cui rivendica la propria sostanzialità spirituale non nega quella della filosofia della scienza, ma in qualche modo la custodisce in sé. Lei custodisce la differenza, la differenza originaria, ma tra i differenti stabilisce anche una vera ospitalità.

I differenti si ospitano, i differenti sono ospitali l'uno con l'altro, i differenti riconoscono la sostanzialità reciproca. Allora vi è una forma di vita. Non sarebbe una resistenza all'attuale deriva se la poesia si ergesse, diciamo così, contro il linguaggio filosofico scientifico, con un gesto così tardo romantico.

rivendicando una propria superiorità. Questo sarebbe un indirizzo totalmente sbagliato contro il dominio della tecnica, la poesia. La vera poesia dicendo con chiarezza ciò che è oscuro, dicendo con chiarezza ciò che sta nella matrice, esprimendolo con chiarezza nei modi in cui può essere detto chiaramente. chiaramente indicandolo, ebbene la poesia in questo stesso momento non ha nulla da dire contro il linguaggio filosofico, scientifico e la tecnica, ma afferma la propria sostanza.

E quindi non ammette che questa sostanzialità spirituale sia messa in discussione. Io sono ora necessaria poesia in questi termini, in questi limiti e in questi termini, in questi limiti riconoscono la tua sostanzialità. Se noi creiamo questa ospitalità reciproca, se noi creiamo questa differenza in cui i distinti, i differenti si riconoscono in uno proprio in quanto differenti.

si riconoscono differenti proprio perché riconoscono di poterlo essere e io riconosco la differenza da te soltanto nella misura in cui sono in rapporto con te e questa differenza non diventa una differenza di nemici ma diventa una differenza di ospitalità o di filia, allora noi ricostruiamo un orizzonte comune, superiamo le scemenze sulle doppie culture. Riconosciamo la ricchezza del nostro essere spirituale, la ricchezza in cui la sostanzialità spirituale del nostro essere si può esprimere filosoficamente, scientificamente, poeticamente, ma il problema essenziale ora è riconoscere di fronte alla deriva. che porta al massacro quotidiano della nostra lingua madre, riconoscere che la lingua madre sta nella poesia.

È la poesia che custodisce la lingua madre, è la poesia che fonda la lingua madre e da nessuna parte, in nessun altro idioma e in nessun'altra cultura più che in quella italiana. La lingua italiana è la poesia. nasce poetica, nasce nella poesia e questa coscienza della essenzialità della poesia anche da un punto di vista storico, culturale per noi, proprio per il nostro paese per noi è ancora più essenziale che per altri paesi. Questa è la prospettiva in cui mi pare che poesia e filosofia dovrebbero nel riconoscimento reciproco della essenzialità di entrambi e mantenendo in questo la loro distinzione potrebbero insieme poi alla fine indicare in modo diverso quel grembo, quel seme che forse è ricordare quel grembo, quel seme.

che forse, forse, perché chi lo sa, quel fondo sta nell'abisso, che forse ha generato entrambi filosofia, scienza e poesia. Grazie.