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Finding Happiness Through Life's Journeys

Trascrizione: Cecilia Secco Revisore: Sofia Ramundo Non mi è mai piaciuto volare. E so per certo di non essere l'unico: circa sei persone su dieci provano una sensazione che va da un leggero disagio a un profondo terrore, quando devono prendere un volo aereo. Non mi è mai piaciuto volare; ed è un problema perché, al contrario, amo profondamente viaggiare. Viaggiare è stato un desiderio fortissimo per me, nel corso della mia vita. Anche solo la prospettiva di poter partire per andare a esplorare nuovi orizzonti, nuove culture, nuovi sapori, nuove persone è sempre stato qualcosa che mi entusiasmava, che mi rendeva felice. Nonostante questa passione viscerale per il viaggio, che mi ha portato a fare di tutto per poter lavorare viaggiando, e quindi poter viaggiare il più possibile, non ho mai amato volare. Anzi, sono una di quelle persone che quando si trovava su un volo aereo un po' problematico, con una turbolenza, si terrorizzava. Ed era questo, più o meno, il pensiero che avevo in mente alcuni anni fa su un volo che da Hong Kong mi stava riportando a Bali, che è il posto che io chiamo casa per alcuni mesi dell'anno. Il volo stava andando alla perfezione, quando, a un certo punto, la prima scossa, quella sensazione che tutti noi conosciamo. Si accendono le luci del segnale della cintura allacciata, il comandante ordina a tutti di tornare immediatamente al proprio posto perché siamo appena entrati in una fase con forti turbolenze. Io non ero seduto, ovviamente, ero sul fondo dell'aereo, ero andato a chiedere un bicchiere d'acqua quando tutto si mise a tremare e il mio istinto fu quello di girarmi e di andare immediatamente al mio posto, ma mentre stavo per fare questo movimento, qualcosa catturò la mia attenzione: c'era un'hostess sul fondo dell'aereo che sistemava gli snack sul carrello e sembrava la persona più tranquilla del mondo, totalmente in pace con se stessa, completamente disinteressata a quella turbolenza che invece stava terrorizzando me e la maggior parte dei passeggeri. Per me era inconcepibile, non riuscivo a spiegarmi come riuscisse a essere così calma e tranquilla, a continuare il suo lavoro come se nulla fosse. Così, approfittando di un momento in cui l'aereo non vibrava particolarmente, decisi di andare a chiederglielo. Mi lanciai, mi avvicinai, feci un sorriso per celare il disagio e l'imbarazzo e le chiesi semplicemente: "Come fai a non avere paura?" E vedete, il bello di viaggiare è che ci sono dei momenti apparentemente insignificanti per gli altri, che invece hanno la potenzialità di cambiarti la vita. E quello fu uno di quei momenti, perché l'hostess si girò, mi studiò per un attimo un po' confusa per quella domanda sicuramente inaspettata, però poi mi rispose senza esitazioni e mi disse: "Gli aeroplani sono fatti per volare". Quelle parole, nella loro semplicità, iniziarono a risuonare dentro di me, andarono a toccare delle corde che avevo dentro che neanche sapevo di avere. Lei mi vide un po' confuso e riprese a parlare. Mi disse: "Lo sai che ci sono molte più possibilità che un aeroplano causi un incidente quando è per terra, rispetto a quando è in volo? Perché gli aeroplani sono dei mezzi estremamente pesanti, sono ingombranti, sono difficili da manovrare per terra. Gli aeroplani sono stati progettati e studiati per stare in cielo. Il cielo, è la loro dimensione: quando un aeroplano è in cielo non hai nulla di cui preoccuparti. Gli aeroplani sono fatti per volare." E con quell'ultima frase fece un sorriso, mi indicò il segnale delle cinture e mi congedò. Io tornai subito al mio posto e avevo tutte queste parole che mi risuonavano dentro. Decisi di fare una cosa che non avevo mai fatto: guardai fuori dal finestrino. Non l'avevo mai fatto, perché pensavo che rendermi conto dell'altezza a cui viaggiavo e della velocità a cui andava l'aereo mi avrebbe terrorizzato. Guardai fuori e non vidi niente: non c'era niente perché era notte fonda, quindi vedevo a malapena l'ala dell'aereo. Eppure non avevo nessuna paura, mi sentivo tranquillo e, per assurdo, mi sentivo per la prima volta nella mia vita al sicuro su un aereo. Da quel giorno, non ho mai più avuto paura di volare, ma non è questa la cosa più importante che è successa a bordo di quel volo aereo, perché quelle semplici parole, semplici ma in un certo senso illuminanti, di quell'hostess, quella strana conversazione che ho avuto con lei aveva dato il via a un effetto domino di riflessioni che mi portarono a una riflessione finale: gli aeroplani sono fatti per volare, su questo non c'è dubbio, e noi esseri umani, invece, per cosa siamo fatti? Qual è la nostra dimensione, come il cielo lo è per l'aeroplano? Che cosa possiamo fare ogni singolo giorno per poter essere felici? Per sentirci realizzati? Io ho cercato a lungo una risposta, mi è rimasta proprio dentro questa serie di domande, e l'ho cercata fuori la risposta. L'ho cercata confrontandomi con altre culture, con altri modi di intendere la vita, leggendo tanti libri, guardando tanti film. Poi un giorno mi sono reso conto che la risposta ce l'avevo dentro. Dovevo semplicemente riavvolgere il nastro e andare a rivedere tutte le esperienze che avevo vissuto in giro per il mondo, tutti gli stati d'animo che avevo avuto. Ero sicuro che facendo questo processo avrei trovato la risposta. Così partii da quando ero un ragazzo appena uscito dal liceo, convinto che la forma della sua felicità fosse quella più tradizionale, quella che gli era stata insegnata fin da piccolo quindi: laureati, prendi magari una seconda laurea, trova un bel lavoro prestigioso, inizia a lavorare duramente per poi poterti permettere una casa, magari una casa in centro da ostentare agli amici e avere un'automobile potente con cui girare la domenica mattina per farti vedere dagli altri e suscitare un po' di invidia. Credevo fosse quella la forma della mia felicità. Così avevo iniziato questo percorso, mi ero iscritto all'università pensando di fare il primo passo in quella direzione. Poi però mi resi conto dopo pochi mesi che non sarei riuscito a trovare la felicità in quel modo, perché anche solo pensare a quella vita mi rendeva infelice. Non perché sia sbagliato, ma per me non poteva funzionare, la forma della mia felicità non poteva essere quella. Così decisi a vent'anni di lasciare l'università, prendere tutti i risparmi che avevo e comprare un biglietto di sola andata per l'Australia, con l'intenzione di arrivare là, cercare lavoro per poter sopravvivere, ma soprattutto esplorare gli stili di vita alternativi, le alternative, cercare delle risposte. E così iniziò il mio girare per il mondo che adesso dura da più di otto anni, ma quello che è stato veramente importante del mio girovagare, sono stati gli incontri che ho fatto. In Australia, ad esempio, conobbi un ragazzo italiano che si era trasferito lì alcuni anni prima e faceva l'istruttore di surf. Lui si alzava ogni mattina all'alba, prendeva la sua tavola, percorreva a piedi le poche centinaia di metri che lo separavano dall'oceano, si buttava nel mare con un entusiasmo che non avevo mai visto nella mia vita, e quando era tra le onde, era la persona più felice del mondo. Ecco, se a lui avessero chiesto: "Per cosa sei fatto?", lui avrebbe risposto senza esitazioni: "Sono fatto per fare surf". Se poteva svegliarsi ogni mattina e fare surf era felice, indipendentemente da ciò che accadeva nel resto della sua giornata. Qualche anno più tardi, mi trasferii in Canada e lì conobbi un personaggio veramente curioso: un uomo di 70 anni che aveva lavorato per trent'anni in una grossa banca canadese, anche con un impiego di una certa responsabilità e prestigio. Poi un giorno si era stufato, infelice di quella vita, e aveva deciso di licenziarsi, prendere la liquidazione, e investirla per fare il giro del mondo. E così aveva fatto: aveva iniziato a girare tutto il mondo, visitando decine di paesi, immergendosi in tantissimi modi di vivere diversi, tantissime culture diverse. E aveva capito, alla fine, che non c'era nessun posto migliore di quello che lui da sempre chiamava casa. Vancouver, era il posto più bello del mondo per lui. Allora era tornato a Vancouver, ma questa volta non più per lavorare in banca, ma per fare ciò che lo rendeva felice. Aveva comprato un terreno e aveva iniziato a coltivare mirtilli. Quando lui mi raccontò questo fatto, io rimasi un attimo confuso, gli dissi: "I mirtilli? E perché i mirtilli dopo tutto quello che hai fatto, i viaggi, la banca...". E lui mi rispose semplicemente: "Per me i mirtilli sono la felicità. Poterli coltivare, poterli prendere, poterne fare delle marmellate, dei biscotti, e il mio risotto che è il più buono di tutto il Canada - sottolineava sempre - mi rende felice". Più recentemente, un paio di anni fa, ho incontrato una ragazza a Bali, che mi ha raccontato la sua storia, anche lei si era trasferita a vivere lì. La sua storia era veramente particolare: era arrivata sull'isola, come tanti altri turisti, per visitarla. Una volta lì, però, si era innamorata di quel luogo e un giorno, mentre guidava il suo scooter, si rese conto di quanti cani randagi ci fossero in giro. Questa consapevolezza la colpì con tale forza che lei decise di rimanere a Bali, ma per prendersi cura dei cani randagi. Così iniziò a lavorare come volontaria in un ambulatorio, poi ne aprì uno suo e adesso questa è la sua vita. Una vita estremamente più dura, difficile, sporca rispetto a quella che aveva, molto più semplice, in occidente, ma una vita piena, una vita che la rende felice. E se trovi la tua felicità, in fondo, non hai bisogno di nient'altro. Ecco, io ne ho conosciute a decine di persone così, con una forma della loro felicità veramente alternativa e strana. E ripensando a loro, mi sono reso conto che non possiamo rispondere alla domanda: "per cosa siamo fatti?", perché noi esseri umani siamo molto più complicati di un aeroplano. Se tu chiedi a una persona: "che forma ha la tua felicità?", ogni singola persona ti dà una risposta diversa, oppure, ancora più grave, ti risponde "non lo so". Quindi la vera domanda non è questa. Perché c'è un comune denominatore tra tutte le persone felici che ho incontrato, ed è il fatto che erano tutte riuscite a valorizzare il loro tempo. Avete presente quella sensazione, che sono sicuro molti di voi hanno provato almeno una volta nella vita, di arrivare sul posto di lavoro, guardare l'orologio, vedere che sono le 9 e un quarto e dire: "Dannazione, cosa non darei per poter far volare le prossime otto ore, per poterle consumare e teletrasportarmi a stasera, quando sarò libero di fare quello che voglio". Io questa sensazione la provavo all'università, era davvero una situazione che non mi rendeva felice. Mi sentivo come un animale in gabbia, quindi arrivavo in aula e dicevo: "Quanto vorrei consumare in fretta queste ore". Ecco, nessuna delle persone felici che ho incontrato sul mio percorso aveva questi pensieri, ma a dire la verità nessuno di loro neanche si chiedeva che cos'è la felicità. Lo erano perché erano riusciti a riempire il loro tempo di ciò che gli piace fare. Allora alla domanda: "Cosa possiamo fare ogni singolo giorno per valorizzare il nostro tempo?", ho trovato delle risposte in questo caso. Ho ripensato al mio percorso, e queste sono le tre fasi per valorizzare il proprio tempo, quelle che funzionano per me, ma potrebbero benissimo funzionare anche per voi. La prima fase è: trovare il proprio "Ikigai". Ikigai è un termine giapponese che significa ragion d'essere. È lo scopo della vita di una persona, è il motivo per cui al mattino ti alzi e vivi. La maggior parte delle persone non sa rispondere a: "qual è il tuo ikigai?". Chi invece riesce a rispondere non solo ha valorizzato il proprio tempo, ma probabilmente ha anche trovato la felicità. Perché secondo i giapponesi, l'ikigai è l'intersezione di quattro aspetti: ciò che ami fare, ciò che sai fare, ciò che puoi condividere con gli altri magari per fare del bene, e ciò che puoi fare per mantenerti, per pagare le bollette, per poterti mantenere per l'appunto. Il punto più importante è forse l'ultimo, riuscire a fare dell'ikigai un lavoro, perché io stesso desideravo che il tempo passasse in fretta, ma dal momento in cui sono riuscito a fare della passione per la scrittura un lavoro, del viaggio, un'altra mia passione, uno stile di vita, e da quando ho iniziato ad avere degli obiettivi in cui credo, ho smesso di desiderare che il tempo passi in fretta. Mi sveglio e vorrei che le giornate passassero lente, vorrei non sprecarne neanche una. Trovare il proprio ikigai è fondamentale per valorizzare il proprio tempo. E come si trova l'ikigai? Credo che ci siano tanti modi, ma uno dei più efficaci è tornare indietro con la mente a quando si era giovani, a quando si era un adolescente. Che adulto sognavi di diventare? Quali erano i tuoi sogni? E non è importante se non sei riuscito a diventare il chitarrista di una band famosa in tutto il mondo, perché da giovane sei anche un po' infantile ovviamente. Ma se la musica era la tua più grande passione, era ciò che più ti accendeva, e sei finito a digitare cifre davanti a un computer per otto ore al giorno rinchiuso dentro quattro pareti, allora qualcosa è andato storto. Se il tuo sogno era di diventare una veterinaria, occuparti ogni giorno degli animali, e ti sei laureata in giurisprudenza per far contenta tua madre, qualcosa è andato storto. Queste situazioni non solo creano una grande insoddisfazione, ma anche un sentimento di odio, di invidia, perché non fai quello che ti piace e sai che c'è qualcuno là fuori che lo sta facendo, o perché ha avuto più coraggio o più fortuna, ma comunque c'è qualcuno là fuori che lo sta facendo, e questo a lungo andare, ti logora, ti rovina la vita. La seconda fase per valorizzare il proprio tempo, è essere viaggiatori. Significa ovviamente viaggiare nel mondo, è un consiglio che do a chiunque. Investire i propri soldi nei viaggi, significa dar valore al proprio tempo, aggiungere vita alla vita. D'altronde capita spesso di passare intere settimane a casa, di cui non si ha nessun ricordo, poi parti per un viaggio, e di ogni singola giornata ricordi tutto, hai vari ricordi. Questa credo sia una delle definizioni più belle del valorizzare il proprio tempo: ricordare. Se non la ricordi non puoi dire di aver vissuto la vita fino in fondo; ma il vero senso dell'essere viaggiatori non è collezionare timbri sul passaporto, è una questione di mentalità. Qual è il contrario di viaggiare? Il contrario è stare fermi. Stare fermi fisicamente, ma anche fermi sulle proprie posizioni, rinchiudersi nelle abitudini, in ciò che conosciamo, non rischiare, non andare mai a esplorare l'ignoto. E allora essere viaggiatori è una questione di stile di vita, di approccio alla vita. Faccio un esempio: se ogni mattina vedi una ragazza che magari ti piace, la osservi però poi non riesci mai a fare quel passo per andare a parlarle, buttati, parti, viaggia dentro di lei, dentro i suoi sogni, nel suo modo di vedere la vita, nel suo passato, nei suoi progetti, nelle sue ambizioni, buttati! Questo vuol dire essere viaggiatori. Hai un brutto rapporto con tuo padre e non ne parlate mai, avete quel muro di indifferenza tra di voi? Iniziate un viaggio insieme, fate quella conversazione che rimandate da troppi anni. Questo significa essere viaggiatori. Vuol dire smettere di essere passeggeri, e diventare piloti della propria vita, prenderne il controllo, questo significa essere viaggiatori. E il terzo punto per imparare a valorizzare il proprio tempo, e quello che forse mi sta un po' più a cuore, è essere artigiani del proprio tempo. Nel corso del mio girare per il mondo ho svolto decine di lavori diversi, tra cui quello del panificatore. Mi svegliavo ogni notte, quando tutti dormivano, e iniziavo a lavorare, e poi andavo a dormire mentre tutti erano al lavoro. È una vita molto dura, una vita non semplice, però il lavoro del panificatore, dà la grande possibilità di pensare, di riflettere, tu sei lì che impasti, intanto con la mente ragioni, rifletti, e fai delle scoperte che ti possono cambiare la vita. In quel periodo io ne feci una, e cioè che il mio pane, quello che facevo per me, era il più buono del mondo, e attenzione non perché io sia il miglior panificatore del mondo, ma perché era mio. Lo avevo scelto io quel pane, lo avevo modellato come volevo io, gli avevo messo gli ingredienti che più mi piacevano, lo avevo cotto come piaceva a me, gli avevo dato la forma che volevo io. Era fatto esattamente sulla forma del mio gusto. E credo che questa sia un'ottima metafora di ciò che significa valorizzare il proprio tempo. Il tempo lo dovete modellare, dovete essere artigiani del vostro tempo, non dei consumatori, non potete trovarlo preconfezionato sullo scaffale del supermercato come avviene invece con il pane. Il vostro tempo lo dovreste modellare sulla forma della vostra felicità, qualunque essa sia. Questo è fondamentale. E per riuscire a essere artigiani del proprio tempo, c'è un modo che mi ha trasmesso un monaco buddista. Alcuni anni fa, ho avuto l'onore e il privilegio di parlare con un anziano monaco buddista a Chiang Mai in Thailandia, al quale posi una domanda provocatoria, gli chiesi: "C'è un modo per essere felici ogni singolo giorno?" Lui mi disse: "La felicità, per come la intendete voi occidentali, è una questione di imparare a vivere nel momento presente, perché voi occidentali siete ossessionati dal passato e dal futuro, ma il passato non torna, e quindi non ha alcun effetto su di voi, quindi non esiste il passato. Il futuro non è altro che un'ipotesi: voi state ipotizzando di averlo un futuro ma non è detto, quindi non dovreste neanche pensarci, dovreste vivere ogni singola giornata come fosse un nuovo inizio, come se fosse una nuova vita, e se ci riuscite, riuscite a darvi la possibilità di essere felici ogni singolo giorno, perché ogni giorno è un nuovo inizio, si parte tutto da capo". Io ho cercato di fare mia questa filosofia di vita, e la prima cosa che ho fatto è stata smettere di essere schiavo del calendario. È una cosa a cui ho pensato soltanto negli ultimi anni e mi sono reso conto di quanto siamo schiavi delle date sul calendario. C'è una data che ci dice quando possiamo essere felici, c'è una data che invece rappresenta un giorno qualsiasi, anonimo, che non vale niente. C'è una data in cui dobbiamo essere tristi, perché torniamo dalle ferie e si torna a lavorare. Il punto è che, riuscire a capire che ogni singola giornata è un nuovo inizio, è davvero un passo importantissimo verso la propria felicità. Perché, la vedete questa foto? Io non l'ho scattata il giorno di Natale, non l'ho scattata il giorno del mio compleanno, non era sabato sera, quel momento in cui ti senti costretto a essere felice. Non so nemmeno quando è stata scattata questa foto. Però ricordo che ero su un'isola thailandese, Koh Lipe, e ricordo che questa giornata è stata una delle più felici della mia vita. Questa è l'unica cosa che conta. Pertanto, l'augurio che faccio a chiunque incontro sulla mia strada è quello che c'è scritto sul mio taccuino di viaggio: "have a nice life". Trovate il vostro ikigai, siate viaggiatori della vita, siate artigiani del vostro tempo, e riuscirete a ottenere esattamente questo: una buona vita. Grazie. [Applausi]