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Il linguaggio d'odio e la sua evoluzione sociale

Musica Musica Musica Musica Musica Provate a immaginare se questa sera esordissi dicendo qualcosa del tipo benvenute a tutte e a tutti cari stronzi. Immagino che la maggior parte di voi si riterrebbe offesa da un'affermazione del genere e non indugerebbe più di tanto nell'alzarsi e andarsene via. Questo perché l'enunciato che ho proferito poc'anzi include al suo interno il termine stronzi, un vocabolo della lingua italiana che rientra a pieno titolo in quel repertorio di espressioni delle lingue naturali, che in linguistica vengono tipicamente definiti espressivi negativi, più comunemente noti come termini insultanti o insulti. L'insulto e il linguaggio d'odio sono uno dei grandi temi della nostra contemporaneità.

Abbiamo in effetti la netta sensazione di vivere in un'epoca in cui offese, insulti e improperi piovono da tutte le parti. E la sensazione di vivere in un certo senso nell'epoca d'oro dell'ingiuria, dipende soprattutto da due aspetti. La prima ragione risiede nella funzione che le parole di insulto giocano nel linguaggio politico odierno.

Insulti e offese sono oggi più che mai un attrezzo retorico di delegittimazione dell'avversario e di costruzione del consenso politico. Il secondo motivo che fa dell'insulto una questione quanto mai viva e attuale ha a che fare con un problema che risiede... là dove oramai tutti puntano lo sguardo, i social media, che notoriamente costituiscono un terreno di interazione sociale particolarmente fertile per il proliferare del linguaggio d'odio.

E proprio per queste ragioni il numero di pubblicazioni scientifiche e citazioni intorno al tema del hate speech, del linguaggio d'odio, è aumentato esponenzialmente nel corso degli ultimi vent'anni in tutti gli ambiti del sapere. Oggi sappiamo molto della varietà di effetti e conseguenze negative che il linguaggio offensivo, spregiativo e soprattutto discriminatorio hanno nei confronti di coloro che sono vittime o bersagli di forme di violenza verbale. Il linguaggio offensivo e discriminatorio in un certo senso rappresentano dunque il lato oscuro del linguaggio. Le parole offensive sono componenti delle lingue che contravvengono alle regole della comunicazione civile, razionale e cooperativa.

il cui uso va in tal senso osteggiato e contrastato. Ma nella vita io faccio il linguista. In altre parole mi occupo dello studio scientifico della struttura e del funzionamento delle lingue e del linguaggio.

E come linguista c'è una questione che trovo particolarmente interessante. Di che si tratta? Partiamo da una considerazione.

Se noi pensiamo che ad oggi le lingue parlate nel mondo sono più di 7000 e che i dati che abbiamo a disposizione sembrano suggerirci che quasi tutte le lingue esibiscono un repertorio più o meno ampio di termini offensivi, ci rendiamo facilmente conto del fatto che il numero e la varietà di vocabolari spregiativi è a dir poco sorprendente. Ed è un'evidenza della quale possiamo renderci facilmente conto se proviamo a concentrarci sulla sola lingua italiana. Se noi proviamo ad esempio a consultare un dizionario come il grande dizionario italiano dell'uso, il GRADIT, Un primo dato sorprendente col quale ci troviamo a fare i conti è che su una totalità di più di 300.000 lemmi, ben più di 2.000 espressioni, si candidano al ruolo di vocaboli capaci di farsi portatori di contenuti offensivi. Stiamo parlando di un vocabolo ogni 150, una cifra piuttosto considerevole.

Ora, dinanzi a un dato così sorprendente, i linguisti tipicamente sono mossi da una brama classificatoria e con un certo margine di semplificazione. Potremmo dire che i termini di insulto sono per lo più riconducibili a due classi di vocaboli. I primi sono gli insulti particolaristici, ovvero sia quei termini che colpiscono singoli individui e che includono ad esempio i termini di turpiloquio, i termini originariamente neutri come cretino, la francese cretenne, che col mutamento linguistico ha nel tempo consolidato un valore spregiativo, E su un terreno particolarmente scivoloso ci muoviamo invece se consideriamo lo sterminato repertorio di termini apparentemente neutri, ossia dotati di una mera valenza descrittiva, ma che nell'uso quotidiano del linguaggio possono essere utilizzati con una funzione spregiativa attivando particolari stereotipi negativi. Ma diciamo che una regione piuttosto caustica del nostro vocabolario è senz'altro rappresentata dagli epiteti denigratori, ovvero sia tutti quei termini che denigrano ma soprattutto discriminano un individuo in virtù della sua appartenenza a un gruppo sociale target, vittima di stigmatizzazione o discriminazione legata a ragioni etniche, alla provenienza geografica, all'identità di genere, all'orientamento sessuale o a particolari credenze religiose o politiche, che chiaramente variano tra loro per potenziale offensivo e discriminatorio. Insomma, nella sola lingua italiana rintracciamo un vasto...

e ricco e variegato repertorio di espressioni insultanti che appunto variano per tipo, per contenuto e per grado di offensività. I termini insultanti sembrano dunque essere una componente costitutiva delle lingue naturali. Ma allora viene da chiedersi, a che cosa servono gli insulti? Ossia, perché le lingue mettono a disposizione dei parlanti espressioni deputate a giocare una particolare funzione, insultare gli altri?

Io, a questo proposito, ho una proposta. Le parole di insulto esistono, tra le altre ragioni, poiché adempiono a un'importante funzione sociale e conservativa, ritualizzare l'aggressività. Ora, capire a che cosa servono i termini di insulto è un'impresa tutt'altro che semplice, e questo dipende anche in parte dal fatto che tradizionalmente le scienze del linguaggio hanno estromesso dal loro raggio di interesse fenomeni come gli insulti, il turpiloquio, le esclamazioni, le interiezioni, il lessico sessuale e blasfemo, e il disinteresse per...

Tali fenomeni dipende in parte anche da una forma di moralismo linguistico o comunque inibizione teorica ad affrontare argomenti tradizionalmente considerati tabù. Ma è soprattutto legato all'idea di lunga data che insulti e parolacce siano di fatto nient'altro che semplici sfoghi emotivi, fenomeni che con il linguaggio hanno poco a che fare e che sono assimilabili a uno sbraito, un pugno o uno schiaffo. Ed è una visione ampiamente consolidata anche nell'ambito delle neuroscienze del linguaggio. Pensiamo a uno dei casi più classici, che secondo molti ha dato origine allo studio del rapporto tra il linguaggio verbale e il cervello umano.

Il caso Tantan, Parigi, 1861. Nel reparto di psichiatria dell'hôpital Bicetre, Louis-Victor Le Born è ricoverato da circa 20 anni. I primi sintomi dell'epilessia li ebbe in giovane età. Poi... all'improvviso la drammatica svolta. A causa di un attacco ischemico, Le Born perde totalmente l'uso della parola, pur rimanendo in grado di comprendere i discorsi degli altri.

Tan-tan furono le uniche sillabe che fu in grado di pronunciare da quel momento, fino alla sua morte, sopraggiunta il 17 aprile 1861. Il dottor Paul Broca viene chiamato a condurre l'autopsia sul paziente Tan, come... Dall'in avanti l'avrebbe rinominato nelle sue relazioni mediche. Durante la dissezione del cranio, il cervello di Tantan rivela qualcosa di singolare. Broca osserva una anomalia anatomica nel lobo frontale sinistro.

Per la prima volta viene individuata una delle aree cerebrali responsabile della produzione del linguaggio. Tutt'oggi, vabbè, va da sé, meritatamente denominata area di Broca. Nascono così le neuroscienze del linguaggio.

Ora, questa è la versione della storia che si trova spesso sui manuali quando si narra la vicenda di Tantan. Ma vi ha un particolare da non trascurare. Nei momenti di rabbia, il susseguirsi della sillaba Tan era interrotto da un Sacre Nom de Dieu, per Dio. Pur avendo perso l'eloquio, Le Born era ancora in grado di imprecare.

Ora, casi clinici come questi hanno contribuito a consolidare l'idea che esclamazioni, imprecazioni, insulti, parolacce rappresentino delle mere manifestazioni emotive, un epifenomeno che poco ha a che fare con il modo in cui funzionano le lingue e la facoltà umana del linguaggio. Tant'è vero che sembrano sopravvivere anche quando la capacità di parlare è totalmente compromessa. Ma è proprio vero che queste espressioni hanno poco a che fare con il linguaggio? e che la loro funzione è semplicemente dar sfogo a emozioni negative?

Beh, in effetti, l'uso di un insulto sembra per lo più motivato da un moto di ira o di rabbia e in questo punto di vista classico quindi sembra esserci un fondo di verità. Ma forse sarebbe riduttivo pensare a questo ampio e vario repertorio di espressioni linguistiche come una semplice valvola di sfogo. Ad esempio, in uno studio che abbiamo pubblicato l'anno scorso sulla rivista Cognitive Science, Tramite la tecnica del light tracker, una telecamera infrarossi che monitora come si sposta lo sguardo di un partecipante sullo schermo di un computer, quando sente un suono, una parola o una frase, abbiamo mostrato che quando a un gruppo di partecipanti veniva presentata una configurazione di immagini contenenti un gatto, un cane, un pesce rosso e un coniglio, nel momento in cui i soggetti sentivano una frase del tipo, il maledetto cane è sul divano, Se era una conoscenza del fatto che il parlante avesse una certa avversità nei confronti dei cani, puntavano lo sguardo sul cane al solo ascolto dell'aggettivo negativo maledetto. E'importante ancora prima di sentire la parola cane. Questo suggerisce, ad esempio, che gli aggettivi con valore insultante giocano un ruolo attivo nella comprensione del linguaggio, comportando in un certo senso un effetto anticipatorio che rende la comprensione linguistica più rapida ed efficiente.

Ora, tutto questo... Cosa ci porta a concludere? Che gli insulti sono espressioni del linguaggio, a tutti gli effetti, hanno una grammatica, giocano un ruolo nella comprensione delle frasi e non sono in tal senso riducibili a un mero urlo, un pugno o uno sbraito.

Quindi forse le lingue naturali mettono a disposizione dei parlanti questi termini per rispondere tra le altre a una precisa esigenza espressiva. Non semplicemente dare sfogo a emozioni, bensì... comunicare emozioni negative agli altri. E per quale motivo sentiamo la necessità di comunicare agli altri le nostre emozioni negative?

Usando delle parole. Anzi, usando un ampio e vario repertorio di parole, come abbiamo visto poco fa. Beh, la ragione è che un compito importante, che le parole di insulto giocano, è, dicevamo appunto, ritualizzare l'aggressività. Siamo inclini a manifestare reazioni aggressive. in condizioni di frustrazione.

Se ad ogni occasione l'impulso al conflitto, il desiderio di ledere chi consideriamo ostile, si traducesse in violenza fisica e percosse, non c'è dubbio, almeno per quanto mi riguarda, che avremo ben poche chance di sopravvivere a lungo nel mondo là fuori. E quindi, fin dagli albori della civiltà, gli esseri umani hanno fatto propria la capacità di procrastinare, rimandare o addirittura scongiurare lo scontro fisico. Offese, improperi, insulti sono armi proprie di ogni lingua per mezzo delle quali gli esseri dotati di linguaggio si scontrano, ferendosi a vicenda, senza però versare una sola goccia di sangue.

Le persone si affrontano a parole, duellano a colpi di ingiurie, alla ricerca dell'offesa più adatta ad annientare l'altro mettendolo a tacere. Più di un secolo fa Sigmund Freud scriveva, il primo umano che scagliò un insulto al posto di una pietra fu il fondatore della civiltà. Beh, è vero, gli insulti scongiurano o comunque procrastinano lo scontro fisico, traslando il conflitto dal piano materiale della violenza fisica al piano simbolico della violenza verbale. E in tal senso giocano anche, anche, un'importante funzione conservativa, configurandosi come un fenomeno unicamente e tipicamente umano. E a pensarci bene, l'idea che scambiarsi offese sia una dinamica umana e antropologica che coinvolge una sofisticata architettura rituale, è ampiamente testimoniata in epoche e culture diverse.

Gli insulti erano tollerati durante i Saturnali, le festività in onore del dio Saturno, che avevano luogo nell'impero romano, durante le quali la sovversione autorizzata dell'ordine sociale e il ribaltamento dei ruoli gerarchici trasformavano temporaneamente gli schiavi in uomini liberi, consentendo loro la possibilità di... ingiuriare o schernire il loro padrone. Ma la forma più contemporanea e diffusa di offesa rituale è sicuramente il dissing, ossia le offese che nei testi delle canzoni rap, tipicamente rivolte ai rapper avversari. Insomma, uno scambio di offese è una dinamica antropologica, dicevamo, che coinvolge una sofisticata architettura rituale che si rintraccia in contesti gogliardici, musicali, letterali e, non in ultimo, nella vita quotidiana.

Quindi... Quale conclusione possiamo trarre? Che forse possedere competenza denigratoria, ossia disporre di un vasto repertorio di insulti, usare tutto il repertorio di espressioni insultanti che le lingue ci mettono a disposizione per comunicare le nostre emozioni negative nel modo più vario e consapevole possibile, forse ci rende anche un po'più capaci di stare al mondo. Insomma, essere parlanti competenti significa anche saper insultare.

Saper scegliere le parole giuste nel contesto giusto. E il mondo in cui viviamo non perde occasione di porci di fronte a conflitti e ostilità. Il linguaggio prontamente ci corre in soccorso, fornendoci gli strumenti adatti ad affrontare le avversità che il mondo ci riserva.

Spetta però a noi scegliere come affrontarle. Possiamo alzare bandiera bianca e porgere l'altra guancia ad ogni occasione di scontro. Oppure, al contrario, esprimere senza ritegno odio e ostilità in ogni circostanza che lo consente. Ma questo, come abbiamo visto, può avere delle conseguenze estremamente pericolose.

Oppure, possiamo addestrarci a distinguere le situazioni in cui occorre censurare il linguaggio offensivo da quelle che talvolta ci autorizzano a disporne. Insomma, in questi casi, avere competenza denigratoria, saper insultare, significa saper scegliere i termini... con cura, domandandosi senza indugio se le parole che escono dalla nostra bocca possano ritorcersi contro di noi o, inavvertitamente, contro qualche vittima innocente. Insomma, possiamo e forse dobbiamo agire come parlanti competenti. Grazie, stronzi.