Dunque, io avevo dato come titolo Identità e impoverimento culturale ed è stato appunto annunciato così e in effetti intendo mantenere questo titolo, ci mancherebbe, però... ho pensato di parlare prima di impoverimento culturale e poi di identità. Questo per alcune piccole ragioni.
La ragione è che di identità si parla moltissimo. Ci sono molte pubblicazioni sull'identità. E invece di impoverimento culturale si parla molto, ma molto poco.
E ne sappiamo anche poco. Gli stessi scienziati sociali, antropologi, sociologi, direi che fanno uno scarso uso di questo concetto di impoverimento culturale. Non solo se ne parla poco, ma persino direi che dà un po'fastidio parlarne. Dico questo perché io da qualche tempo, da qualche anno che appunto uso questo concetto di impoverimento culturale e vedo che per esempio alcuni diversi miei colleghi antropologi trovano questo concetto piuttosto fastidioso e anzi piuttosto pericoloso. Io invece sono abbastanza convinto che sia un concetto importante e su cui sarebbe bene riflettere e io utilizzerei appunto questo tema dell'impoverimento culturale per poi affrontare in un secondo momento di questa nostra conversazione per poi affrontare appunto il tema dell'identità.
e vorrei stabilire una connessione, un nesso tra l'identità, il mito dell'identità, diciamo subito, e appunto l'impoverimento culturale. Finisco questa piccola premessa dicendo anche che appunto voglio parlare prima dell'impoverimento culturale perché L'identità, come si comporta nei confronti dell'impoverimento culturale? Pur essendo l'identità, e questo cercherò di dimostrarlo, un riflesso dell'impoverimento culturale, per un verso, e per l'altro verso è anche fattore, causa di impoverimento culturale, pur essendo tutto questo, pur essendoci secondo me questo nesso, L'identità quasi ci acceca e l'identità ci impedisce di guardare in faccia l'impoverimento culturale di cui essa è prodotto per un verso e fattore per l'altro.
E allora adesso vorrei appunto intrattenervi un po'su questa idea dell'impoverimento culturale. Ma per introdurre la tematica dell'impoverimento culturale vorrei spendere qualche parola sul concetto di cultura. Cultura come in grosso modo la intendono gli antropologi, del resto io parlo di impoverimento culturale, non parlo per esempio di impoverimento economico. anche se ovviamente ci sono delle relazioni, e quindi quell'aggettivo culturale implica che diciamo qualcosa su che cosa sia, su cosa possa essere cultura. Beh, intanto scombriamo il campo da alcuni possibili equivoci.
Cultura non è un'entità, non è un soggetto. Anche se nel nostro linguaggio, sia nel linguaggio comune sia nel linguaggio degli antropologi, per sbrigarci, per amore di sintesi, diciamo così, per comodità puramente linguistica, abbastanza spesso noi usiamo cultura come se fosse un soggetto. La cultura Bororo pensa che, ecco, cose di questo genere.
No, la cultura non è un soggetto, ma allora che cos'è? Molto semplicemente la cultura è un insieme di strumenti, di mezzi mediante cui affrontiamo il mondo, il mondo in generale, la vita, possiamo anche dire così, e questi mezzi sono di diverso tipo, sono mezzi materiali, sono mezzi sociali, le relazioni sociali a cui ci appoggiamo per esempio, sono mezzi intellettuali, le idee. Sono mezzi simbolici, simboli. Con questi mezzi noi appunto affrontiamo il mondo. E possiamo anche dire, anche se qui non svilupperò questo tema, ce ne ero soltanto, possiamo anche dire che la specie umana si è conosciuto, diciamo così, la sua evoluzione anche in termini biologici grazie alla cultura.
Cioè la specie umana certamente, come dire, ha conosciuto una lunga e complicata evoluzione biologica, ma in questa evoluzione non c'erano solo fattori di tipo biologico, c'erano fattori anche di tipo... di tipo culturale. Ma come vi ho detto non è su questo punto che voglio intrattenervi. Ho detto prima che con la cultura gli esseri umani affrontano il mondo, ma il mondo come lo possiamo descrivere? Il mondo è un insieme di realtà diverse.
Talvolta noi concepiamo questo mondo come qualcosa di inerte e di passivo, una realtà quasi che si offre, disposta a lasciarsi sfruttare. da parte degli esseri umani. Ecco, niente di più, niente di più errato evidentemente. Come possiamo descrivere il mondo?
Ecco, io penso che una buona parola, un concetto importante per descrivere il mondo sia questo e cioè complessità e userei proprio appositamente questa idea della complessità. Per dire che le culture umane, tutte le culture umane, sono tentativi di affrontare il mondo, di affrontarlo nella sua complessità, di affrontarlo proprio perché è complesso. Complessità, ecco, complessità cosa vuol dire? Vuol dire un intrico di relazioni.
la realtà con cui abbiamo a che fare, sia la realtà fisica, sia la realtà sociale, sia la realtà psicologica, eccetera, eccetera. Tutte le realtà sono un intrico di relazioni e queste relazioni sono anche caratterizzate dal fatto che proprio perché sono così connesse, intricate tra di loro, danno luogo a fenomeni imprevedibili. La complessità si esprime molto spesso attraverso i fenomeni di imprevedibilità, di incontrollabilità. I sistemi complessi La teoria della complessità ci parla appunto di sistemi complessi e i sistemi complessi sono appunto quei sistemi che oltre a essere sistemi aperti e non chiusi presentano appunto la caratteristica dell'imprevedibilità.
Alcuni teorici parlano addirittura della caratteristica della creatività. Io adesso vorrei leggervi un brano di un teorico della complessità, perché partiremo poi da questo brano. per sviluppare alcune considerazioni.
Il brano che vi cito è tratto da un libro di Alberto Gandolfi, pubblicato nel 1999, dedicato appunto alla teoria della complessità. Ecco, sentiamo cosa dice Gandolfi. Tutto o quasi ciò che ci circonda è complesso.
Nuotiamo in un mare di complessità. e non ce ne rendiamo conto. La complessità è ovunque, dalla ditta in cui lavoriamo al clima terrestre, da un batterio all'economia mondiale, dal bosco di castagno dietro casa alla cultura di un popolo.
Noi stessi siamo sistemi complessi, lo sono i nostri organi, le nostre cellule. Ci portiamo addosso per tutta la vita, racchiuso nella calotta cranica, il sistema più complesso e meraviglioso che si conosca, il cervello umano. Eppure la nostra ignoranza sul fenomeno della complessità è abissale. Ecco, queste osservazioni, queste riflessioni di Alberto Gandolfi ci consentono di svolgere...
di svolgere degli approfondimenti. Intanto è molto interessante notare una cosa, che la complessità, così come l'abbiamo descritto un istante fa, la complessità non soltanto ci assedia dall'esterno, tutto è complessità, gli dice, tutto ciò che ci circonda è complessità, ma... troviamo complessità, anzi il sistema più complesso che possa esserci a quanto pare, lo troviamo esattamente dentro di noi, dentro la nostra scatola cranica.
Bene, la cultura, o meglio le culture umane che rapporto hanno con la complessità? Qui in questo brano che vi ho letto prima, Avrete notato che Alberto Gandolfi sostiene che anche le culture sono complesse, sono fenomeni di complessità. Su questo punto forse possiamo dissentire un po'da Alberto Gandolfi.
In che senso? Perché possiamo dire che in un certo senso è vero che anche le culture manifestano appunto fenomeni di complessità, su questo non c'è dubbio, però questo non deve farci dimenticare, credo, un punto molto importante che comincia a essere nella mia conversazione un passo decisivo nella riflessione che intendo sottoporvi, ovvero che le culture... le culture umane, sto parlando delle culture umane, le culture umane sono tentativi di riduzione della complessità. Più che essere complesse, sono tentativi di decomplessificazione.
Perché dico questo? Perché... Perché noi possiamo vedere abbastanza bene che tutte le culture contengono e non possono non contenere dei programmi mediante cui ridurre la complessità del mondo. Se il mondo è questo intrico di relazioni, le culture tentano. di ridurre questo intrico di relazioni a un qualche ordine.
Da questo punto di vista potremmo dire che le culture di solito offrono delle mappe, delle mappe per orientarsi nel mondo e le mappe inevitabilmente semplificano, se non vogliamo usare il termine semplificano, decomplessificano. Riducono in ogni caso, riducono la complessità. Una mappa non avrebbe la funzione che ha o che dovrebbe avere, quella cioè appunto di orientarci, se non provvedesse appunto a decomplessificare.
Non solo, ma possiamo anche dire che le culture molto spesso cercano di sostituire, o meglio di sovrapporre alla complessità del mondo, ai sistemi complessi presenti nel mondo, cercano di sostituirvi dei sistemi complicati. E qui la differenza tra sistemi complessi e sistemi complicati va spiegata molto brevemente. Del resto lo stesso Gandolfi usa esattamente questa distinzione, che è una distinzione importante.
Noi nel mondo troviamo molti sistemi complessi con la loro imprevedibilità, con il loro intrico di relazioni, come vi ho detto prima, con le loro interazioni non lineari, eccetera. I sistemi complicati sono invece quelli della tecnologia, della nostra tecnologia, non solo, ma certamente la nostra tecnologia dà luogo a che cosa? Dei sistemi non complessi ma complicati. L'auto con cui sono stato trasportato da Viareggio a qua non è un sistema complesso, è un sistema complicato. l'aereo su cui ogni tanto noi viaggiamo, anche questo è un esempio di sistema complicato.
In che cosa si differenzia il sistema complicato dal sistema complesso? Non per il fatto che vi è un elevato numero di elementi dentro il sistema stesso, ma per il fatto che un sistema complicato ha certamente una rigidità e una soprattutto prevedibilità, una controllabilità che i sistemi complessi non hanno. I sistemi complicati sono per natura, diciamo così, sono appunto fatti per essere sottoposti a controllo, vengono appunto controllati.
La tecnologia è un insieme appunto di sistemi complicati e in fondo noi sostituiamo appunto molti sistemi complessi, li sostituiamo con sistemi complicati. Basta guardarci attorno nel nostro paesaggio, il nostro paesaggio è fatto di tanti sistemi complicati. ci guardiamo attorno un paesaggio molto come si usa dire antropizzato vediamo vediamo tante case per esempio industrie eccetera sono tutti i sistemi complicati e il cervello ecco la complessità dentro di noi il cervello anche qui noi vediamo che la cultura agisce nel senso della decomplessificazione.
Il cervello è un sistema, come abbiamo detto, estremamente complicato. Il numero di neuroni e soprattutto il numero di sinapsi mediante cui i neuroni sono collegati tra di loro Sono numeri veramente inconcepibili per noi, non riusciamo ad afferrare quasi la quantità di queste complessità, ma le culture provvedono a sfrondare. Jean-Pierre Changeux, uno studioso importante delle neuroscienze, ha proposto un concetto a cui intendo riferirmi, che è quello di stabilizzazione selettiva.
Cosa intende Changeux? Intende dire che L'ambiente esterno, ovvero l'ambiente culturale, l'ambiente sociale entro cui un individuo, un piccolo di essere umano cresce, svolge una funzione di stabilizzazione di determinate connessioni, connessioni neuronali. E nello stesso tempo questa stabilizzazione comporta uno sfrondamento.
Ecco perché stabilizzazione selettiva. Del resto questa idea era qualcosa già presente nello strutturalismo francese, Lévi-Strauss già nel 1949 affermava questo. Affermava cioè che quello che noi chiamiamo crescita, crescita dell'individuo, maturazione, sviluppo eccetera eccetera, in realtà è una perdita, è una perdita di possibilità. Tutto questo per consentire a un piccolo di essere umano di parlare una lingua.
Un piccolo di essere umano nasce con tutte le potenzialità per parlare qualsiasi lingua di questo mondo. Crescendo, crescendo in un determinato ambiente, vedrà ridursi queste possibilità. La sua è una crescita, è una realtà, una specializzazione, una specializzazione, una selezione, una selezione di possibilità e solo grazie a questo sfrondamento ecco che sarà messo in grado di parlare una, due, tre, anche quattro lingue contemporaneamente, ma parlarne alcune, non tutte.
ovvero lo sfrondamento delle possibilità, è qualcosa appunto che già gli antropologi e i linguisti avevano considerato nell'epoca dello strutturalismo, come vi dicevo, qualcosa che è stato confermato, mi sembra di poter dire, dalle neuroscienze. Ecco, la cultura provvede, provvede quindi, come vi dicevo, a ridurre. a ridurre, a comprimere, in qualche modo a circoscrivere, a circoscrivere la complessità.
Ma ci riesce? Ci riesce in tutto? Evidentemente no e per fortuna che no.
Intendo dire cioè che questo sforzo di riduzione della complessità è sempre parziale. Intendo dire in altre parole che la complessità sorge, rispunta sempre ai confini, ai confini mentali, diciamo così, di una cultura, così come spunta sempre al suo interno. Quel cervello di cui parlavamo è quella complessità che rispunta continuamente, non appena del resto. un bambino si affaccia al mondo. E se noi consideriamo questo punto, cioè il punto che una cultura tenta di ridurre, si sforza di ridurre, progetta di ridurre la complessità in vari modi, a vari livelli, ma non riesce mai del tutto a ridurre la complessità, Noi potremmo anche dire che ogni cultura è sempre una coperta troppo corta.
Vi proporrei questa immagine. Prima vi avevo detto che la cultura è un insieme di mezzi per affrontare il mondo. Poi vi ho detto che la cultura sono delle mappe per affrontare il mondo.
La cultura dà luogo a dei sistemi complicati, sostituendoli ai sistemi complessi. però tutto questo lavoro è sempre un lavoro appunto molto molto parziale e incompleto, le culture sono profondamente incomplete e allora l'immagine della cultura come una coperta sempre troppo corta, ecco credo che possa essere un'immagine appropriata per accennare a che cosa? Per accennare allo scarto, allo scarto che sempre c'è.
tra l'aspirazione all'ordine tipico di ogni cultura da una parte e dall'altra invece la complessità ovvero il caos che continuamente risorge, che continuamente si ripresenta. Uso questi due termini, ordine e caos, che finora non avevo utilizzato, proprio per dare ulteriore articolazione al mio discorso, per capire un po'meglio il nesso tra cultura da una parte e complessità dall'altra. Ovvero, la cultura cerca di mettere ordine in qualche modo. E però il caos, il termine caos è termine usato appunto dai teorici della complessità, il caos si ripresenta continuamente sia ai confini sia dentro, all'interno della cultura stessa. Ebbene, adesso quello che io, ecco voi mi direte, va bene ma l'identità cosa c'entra con tutto ciò?
Ecco, ci stiamo arrivando. Quello che io adesso vi propongo è di considerare una specie di distinzione, di bivio, di biforcazione in qualche modo. Mi rendo conto di semplificare moltissimo proponendovi questo bivio, però penso che ci possa aiutare ad affrontare meglio il tema che ci sta a cuore, il tema dell'identità.
Qual è questo bivio? Ecco, vi propongo di considerare due tipi diversi, due tipi diversi di culture, ovvero intendo dire che vi sono società che ammettono i propri limiti che ammettono il fatto che la complessità non si può del tutto dominare. Ci sono società che non solo riconoscono la complessità, la complessità del mondo e anche la complessità interna a se stessi, società che fanno posto alla complessità al loro interno non solo che vi fanno posto ma vi fanno ricorso cosa vuol dire fare ricorso alla complessità e vuol dire per esempio vuol dire per esempio lasciare spazio lasciare spazio a quello che noi possiamo chiamare l'emergenza la creatività l'imprevedibilità Sono società queste che riflettono su se stesse e riflettono sui propri limiti e anzi fanno del limite, fanno del limite un qualcosa di virtuoso.
Sono società che ritengono che non è il caso di dominare tutto. di ridurre tutto a ordine. Sono società queste che piuttosto che ordinare tutto, piuttosto che dominare tutto, preferiscono dialogare, dialogare con il mondo, dialogare per esempio con la natura.
Quando mi riferisco a questo tipo di società ho in mente specialmente, ma non solo, ma specialmente società di cacciatori e raccoglitori, intendo dire cioè società che hanno caratterizzato la stragrande parte, diciamo così, della storia dell'umanità. Noi non dobbiamo dimenticare che la storia dell'umanità è fatta. per il suo direi 90% e anche più di società così fatte, cioè di società appunto di caccia e raccolta che hanno fondato la propria cultura esattamente su questo dialogo, su questo riconoscimento della complessità, una complessità che non si può del tutto e non si deve del tutto. ridurre ridurre ordine sono società queste che ponendo un limite sanno arrestarsi sono società potremmo anche dire che trasformano la loro relativa povertà economica e tecnologica la trasformano in una ricchezza culturale ecco ho detto adesso povertà povertà, povertà relativa, povertà economica e tecnologica, perché dal nostro punto di vista non c'è dubbio che le società di cacciatori e raccoglitori ancora un po'ne esistono, ma al mondo poche, ma ancora un po'.
E'indubbio che dal nostro punto di vista sono società, virgolette, povere, sono società cioè che su un piano. tecnologico ed economico appunto, noi giudicheremmo povere, ma sono società che hanno puntato su un'altra forma di ricchezza. Qual è la ricchezza su cui hanno puntato? È la ricchezza delle relazioni. Ecco e qui vorrei introdurre un altro concetto che mi sta molto a cuore e che diventa centrale nel mio discorso.
Le relazioni, le relazioni per esempio con il mondo, le relazioni con l'ambiente esterno, le relazioni con la natura come noi diciamo, hanno sviluppato una vera e propria cultura delle relazioni e per queste società la povertà non è tanta. nella povertà o mancanza di mezzi e nella mancanza di relazioni e cioè nel fatto che le relazioni sia al proprio interno sia all'esterno con la natura o con altre società le relazioni vengono appunto a ridursi, questo allora è povertà, questa sarebbe davvero povertà. e nel dire queste cose io mi riferisco a certe teorie che di questi tempi sono state avanzate anche da certi economisti oltre che da certi antropologi.
Intendo dire cioè che sono società queste che in qualche modo rispondono al modello della decrescita di Serge Latouche. Quando Latouche teorizza la... decrescita, non semplicemente dice occorre ridurre la nostra capacità di sfruttamento, di sfruttamento dell'ambiente, delle relazioni sociali eccetera, ma intende anche riconoscere, lo dice esplicitamente, un altro tipo di ricchezza, la ricchezza cioè delle relazioni. Società che riconoscono il limite, società che non intendono sottoporre il mondo, sia esso sociale sia esso naturale, ha un eccessivo carico, un eccessivo peso di ordine, sono società appunto che privilegiano le relazioni. Quando dico relazioni intendo riferirmi appunto a quell'immagine della complessità che vi ho dato prima.
Questo da una parte, il bivio di cui vi ho detto, dall'altra ci sono società che invece non vedono e non vogliono vedere la propria limitatezza. Sono società che non concepiscono l'arresto. Ho detto prima, ogni cultura è un tentativo o contiene più tentativi di ridurre la complessità. La complessità la si riduce imponendo al mondo un certo ordine.
Ho detto prima che le culture non possono ridurre del tutto. la complessità. Ecco su questo punto c'è il bivio, ci sono società che riconoscono questo e società che invece fanno di tutto per spingere più in là questo limite.
In fondo la teoria del progresso che ha caratterizzato la nostra società così a lungo, la nostra cultura. È una cultura di questo genere e cioè una cultura secondo la quale la riduzione della complessità, ovvero il dominio del mondo attraverso il nostro ordine, le nostre categorie eccetera, deve, ha da continuare a lungo, anzi all'infinito. Il nostro è un modo di vedere per il quale non c'è un limite.
Quale sarebbe il limite? Il limite sarebbe dato solo quando le risorse si sarebbero esaurite, ma allora veramente... Tutto il gioco sarebbe finito. Questo secondo tipo di società pretendono di estendere il proprio dominio a tutto il mondo e, beninteso, concepiscono il mondo come qualcosa che si offre al nostro dominio. Magari teorizzano anche che ci sia stata una qualche divinità che ha messo a nostra disposizione il mondo, la natura.
Del resto se noi prendiamo il libro della Genesi è qualcosa del genere, è appunto detto in questi termini, cioè che gli esseri umani hanno a disposizione il creato, il mondo. non è un'idea antropologicamente diffusa, è un'idea che caratterizza un certo tipo di società. Ebbene, come si sottopone il mondo al proprio dominio, all'ordine, non coltivando le relazioni, ma stabilendo delle...
Categorie. E qui vorrei introdurvi appunto questo ulteriore concetto in contrapposizione alle relazioni. Categorie piuttosto che relazioni.
Introdurre ordine, sottoporre il mondo all'ordine significa categorizzarlo. In primo luogo significa categorizzarlo. Significa tagliare il mondo. Le categorie infatti come si costruiscono?
Si costruiscono tagliando, separando. Si prendono certi fenomeni, li si mettono insieme e insieme formano appunto una categoria. Così facendo noi tagliamo, che cosa tagliamo?
Tagliamo i nessi, tagliamo le relazioni. Noi pensiamo che queste categorie siano come dire strutture del mondo. No, non sono strutture del mondo. Sono i nostri modi di vedere il mondo, sono i nostri modi di, virgolette, tagliare il mondo.
Significa, in altre parole, sfrondare il mondo delle relazioni, o di gran parte delle relazioni. Privilegiare le categorie che danno il senso dell'ordine alle relazioni. Le relazioni, non dimentichiamolo, sono sempre...
hanno sempre una carica, un potenziale trasformativo, oserei dire quasi eversivo. Le relazioni non lasciano mai i soggetti che entrano in relazione così come erano prima. Le relazioni coinvolgono. Le relazioni sono tali per cui appunto se ne esce diversi da come si era entrati in una relazione e questo vale per tutti i fenomeni, per tutti gli aspetti, per tutti i tipi di enti, gli individui umani, le società, ma anche i fenomeni naturali.
Ecco, dominare il mondo significa... estendere sul mondo un ordine di categorie. Queste categorie riducono drasticamente le relazioni e per esempio privilegiano certe relazioni, le relazioni del mercato.
Gli antropologi da questo punto di vista sarebbero in grado di opporre, come già aveva fatto Marcel Mauss, negli anni venti, opporre appunto il mercato, la logica del mercato alla logica del dono. E qual è la differenza fondamentale? La differenza fondamentale è che nel mercato, appunto come dice la parola, ciò che conta sono, noi diciamo, i beni, i beni, gli oggetti, le merci.
Le relazioni sono secondarie. Nella logica del dono al contrario, al contrario sono importanti, indispensabili, essenziali le relazioni. Non è che nell'ordine del mercato le relazioni vengono meno, ma le relazioni vengono ridotte. Vengono ridotte per esempio da relazioni caratterizzate dalla reciprocità, vengono ridotte a relazioni dello sfruttamento economico. Cambia la nozione di ricchezza.
La ricchezza non consiste più in una tesaurizzazione di relazioni. La ricchezza diventa invece un accumulo di merci. La differenza è ovviamente fondamentale proprio perché le relazioni sono qualcosa sono qualcosa che non si possono ridurre appunto semplicemente a oggetti, a merci.
Bene, adesso l'ultima parte di questo mio intervento dovrebbe riguardare appunto l'identità e la domanda appunto è ma l'identità cosa c'entra in tutto questo? Bene, io sono convinto che l'identità c'entri in tutto questo. Nel senso che l'identità direi che è il principio massimo della non-relazione.
La logica dell'identità è in fondo una logica che appunto sostanzialmente fa a meno delle relazioni, non prevede le relazioni. Che cosa esprime l'identità? L'identità esprime un fatto, no? non il fatto, esprime l'idea che un soggetto sia identico a se stesso, esprime cioè l'idea di una costanza, di una permanenza.
Molto spesso, anzi direi quasi inevitabilmente, l'identità si combina, si allea con l'idea appunto di una sostanza, di una sostanza, sia essa individuale, sia essa collettiva. sia essa concepita in termini biologici, sia essa invece concepita in termini culturali, non importa, ma si tratta pur sempre di concepire appunto una sostanza, una sostanza che si configura come un'identità rispetto alla quale le relazioni con gli altri diventano in ogni caso secondarie. Prima c'è l'identità. Prima c'è la preservazione di questa sostanza, poi ci sono le relazioni.
Del resto quante volte noi abbiamo sentito in questi anni, da parte di diversi partiti politici, quante volte abbiamo sentito l'affermazione che occorre prima badare, curare, affermare, ribadire la nostra identità e solo in questo modo. Dopo possiamo stabilire delle relazioni con gli altri. Ecco, vedete appunto come questo ragionamento, ovvero questa logica identitaria, pone in primo piano la questione dell'entità, la questione della sostanza.
di noi concepiti appunto come una sostanza e solo dopo il rapporto con gli altri. Questo non è il fatto che il rapporto con gli altri viene messo solo dopo, non è questo il punto. Il punto è di renderci conto che si tratta davvero di logiche, di impostazioni molto diverse. L'identità in tutto questo cosa fa? L'identità addirittura, la logica identitaria, riduce drasticamente le relazioni con gli altri.
Le relazioni con gli altri vengono concepite sostanzialmente in termini negativi, cioè gli altri sono un'enorme categoria, noi e gli altri, gli altri sono un'enorme categoria rispetto alla quale i nostri rapporti sono in fondo rapporti che si esprimono con un non. Ovvero noi siamo fatti così, in qualunque modo siamo fatti, ma noi siamo fatti così e gli altri cosa sono? Sono altri.
non noi, sono radicalmente diversi da noi. La negatività, la negatività è ciò che caratterizza appunto il rapporto, il rapporto con gli altri in una logica, in una logica identitaria. L'identità è un fondo in fondo, un tentativo, un tentativo di riduzione drastica, elementare.
riduzione appunto della complessità, riduzione delle relazioni. Ecco io vedrei appunto l'identità come una specie di estremizzazione dei tentativi di ridurre la complessità. Ho detto prima, nella prima fase del mio discorso, che tutte le culture in qualche modo riducono la complessità, ma ora io vorrei che fosse chiaro.
che c'è modo e modo di ridurre la complessità e soprattutto, come ho detto un istante fa, ci sono società che si rendono conto di ridurre la complessità e decidono di arrestarsi ad un certo limite in modo da lasciare spazio alle relazioni. Ci sono altre società che invece spingono ulteriormente verso questa riduzione della complessità. complessità che è anche, ho cercato di dimostrarlo, uno sfrondamento, uno sfrondamento di relazioni, cioè cosa si fa?
Si crea una specie di deserto, di deserto relazionale, di deserto relazionale ed è qui l'impoverimento culturale, eccolo qua. In un certo senso tutte le culture sono virgolette povere, in un certo senso. Ho detto anche prima, ogni cultura è una coperta corta, ma qui noi abbiamo a che fare con la logica identitaria, noi abbiamo a che fare con una desertificazione attraverso appunto lo sfrondamento, lo sfrondamento delle relazioni. Sfrondamento delle relazioni perché?
Perché gli altri sono sempre concepiti, sono sempre concepiti non solo come strani. ma anche come fastidiosi, come un ostacolo, meglio, meglio, peggio, come una minaccia, come una minaccia. E l'identità allora che cos'è? L'identità è un tentativo di trasformazione ideologica, di questa povertà relazionale e ne facciamo diventare una specie di principio metafisico, quasi. Anzi, non dimentichiamo che appunto identità si presenta in primo luogo come un principio logico e un principio ontologico.
E'come non vedere, ecco quello che dicevo proprio all'inizio, l'identità ci acceca, l'identità ci impedisce, ci impedisce di vedere la nostra stessa povertà intrinseca. ma ci impedisce anche di entrare in dialogo, di entrare in relazione con gli altri, con l'alterità. Ma quando dico gli altri, l'alterità, intendo il mondo in generale. Vorrei dire che in antropologia noi, per esempio, vediamo come ci sono molte società che estendono la loro nozione di... persona non solo ad altri esseri animali ma a certi fenomeni o eventi della natura, a certi aspetti della natura come può essere una collina o una montagna.
E tutto questo perché? Tutto questo perché appunto si istituisce in questo modo una relazione tra noi e quella collina, per esempio la collina su cui abitiamo, concepita come un mondo complesso, un sistema complesso, fatto di relazioni e noi in mezzo a queste relazioni. riconoscere che noi siamo parte di queste relazioni e non abbiamo il diritto o non dovremmo vantare di avere il diritto di sfrondare queste relazioni, di ridurre... di ridurre appunto queste realtà, sfrondandole delle relazioni, ridurle a semplici enti buoni da sfruttare, null'altro che da sfruttare. L'identità si inserisce esattamente in questo tipo di logica.
L'identità, vi dicevo, è un po'l'estremizzazione di questa logica. Vorrei concludere, e vado davvero alla conclusione di questo mio... di questa mia conversazione proponendovi questa ulteriore riflessione.
In quali campi e sotto quali aspetti, da quale punto di vista, l'identità è veramente un fattore di impoverimento culturale? Ecco, io direi soprattutto dal punto di vista della cultura, della convivenza. L'identità, proprio perché è così refrattaria al mondo delle relazioni, alla complessità delle relazioni, l'identità è ostacolo alla convivenza, ci acceca, ci impedisce di vedere quali sono le caratteristiche, quali sono gli elementi, i fattori della convivenza.
L'identità che cosa fa, infatti? L'identità volge il nostro sguardo solo su noi stessi, cioè non solo impedisce di vedere l'alterità. di apprezzarla anche ma attenzione rivolgendo lo sguardo solo su noi stessi l'identità anche ci mette delle bende sugli occhi per guardare il futuro e voglio dire non è quindi questione soltanto il mio non vuole essere un discorso intriso di buonismo non è questo il punto Il mio vuole essere un discorso preoccupato su quelli che sono i limiti culturali dell'identità. Intendo dire questo che una società dominata, come mi sembra di poter dire che la nostra sia, una società dominata dal mito dell'identità, è una società che non sa progettare il proprio futuro.
è una società che, come dire, considera valido solo il presente, difendibile solo il presente. Il presente è concepito come il retaggio, l'eredità di un passato più o meno inventato, anzi molto spesso inventato, nulla più che inventato, finto. Ebbene, nel fare questo Nel fare questo la logica identitaria o una società che viene così dominata dalla logica identitaria, attenzione, non solo mette in pericolo le relazioni con gli altri, mette in pericolo le relazioni con quegli altri che sono i nostri figli, le generazioni a venire.
Accecati dall'identità non sappiamo organizzare il futuro, non sappiamo guardare quelli che sono i problemi dei giovani, di coloro che dovrebbero appunto succedere a noi e credo che questo sia un qualcosa su cui valga la pena di riflettere in termini appunto di impoverimento culturale. E qui sto parlando di convivenza, come ho detto prima, cioè di una convivenza all'interno della nostra stessa società. I giovani, non dimentichiamolo, che sono appunto, in qualche modo sono altri, sono altri che, i bambini intendo dire, i bambini e poi i giovani, eccetera, sono altri che entrano nella nostra società. Con l'identità noi non ci attrezziamo. Non ci attrezziamo per bene ad affrontare appunto questa problematica della convivenza, di una convivenza al nostro interno, persino al nostro interno.
L'identità che sembra essere così preoccupata appunto del noi, in realtà è talmente cieca che non vede neanche i problemi all'interno del nostro noi. E concludo dicendo che rispetto agli altri, agli altri che provengono d'altrove, rispetto agli altri che provengono da altre società, l'identità al massimo si può spingere a quello che si potrebbe chiamare un regime di coesistenza. Io qui utilizzo una distinzione che mi sono accorto poco tempo fa, ho visto che anche Gustavo Zagrebelsky utilizza, cioè la distinzione tra coesistenza e convivenza.
noi intendiamo la lingua italiana offre l'opportunità di utilizzare questi due termini per dire che cosa, ecco, forzando un pochino i significati, caricando queste parole di certi significati più specifici, potremmo dire che coesistenza si basa fondamentalmente sul principio della separazione cioè su un principio categoriale, ancora una volta coesistenza possiamo immaginare che sia una società dove coesistono appunto gruppi diversi categorie diverse ognuno rispondente alla propria principi alla propria logica le proprie ai propri valori eccetera eccetera ecco l'importante è di ridurre ancora una volta le relazioni ridurre le relazioni fino al punto ottimale quasi di vederle scomparire grazie Ben inteso, coesistenza non è una brutta cosa. Coesistenza è sempre meglio del respingimento, coesistenza è sempre meglio dell'annientamento, per carità. Però quello che io vorrei far notare, appunto in conclusione di questa mia conversazione, è proprio questo, cioè i limiti della coesistenza. Detto in altri termini, la povertà della coesistenza. Da questo punto di vista vorrei anche far riflettere sulla relativa povertà persino della tolleranza.
Ecco, la coesistenza può anche nutrirsi. di tolleranza e ripeto è una cosa tutt'altro che, è una cosa positiva, una cosa che va bene, ma con dei limiti molto forti. Perché?
Perché la tolleranza è pur sempre qualcosa direi di molto precario. può essere diminuita. La tolleranza si base infatti su un rapporto gerarchico tra le categorie, tra noi e gli altri. E beninteso la cosa può essere anche reciproca, sia chiaro. Su un rapporto gerarchico tale per cui noi decidiamo di tollerare.
Potremmo anche ridurre la tolleranza, ridurla al grado zero. come spesso si sente anche dire, ovvero ci muoviamo appunto in una logica identitaria fondamentalmente povera. La convivenza esige altre cose, la convivenza a mio modo di vedere esige che ci liberiamo dalla logica identitaria, dai miti dell'identità.
dalle finzioni dell'identità, la convivenza esige, richiede che vi siano dei coinvolgimenti, le relazioni, le relazioni ispirano la logica della convivenza e le relazioni sono sempre qualcosa di... che coinvolge e che trasforma. Ecco, mi rendo conto che il compito è molto più difficile, è molto più rischioso, molto più semplice, molto più semplice rifugiarci nel principio della sicurezza, nel principio appunto della separazione. Quello che ispira esattamente l'identità, certo, è molto più semplice, è molto più elementare. La convivenza è qualcosa di molto, molto più rischioso e richiede una cosa che l'identità non fa, cioè lo sviluppo di una vera e propria cultura della convivenza, cioè una richiesta di pensare.
valutare, discutere, discutere insieme agli altri, provare, tentare delle soluzioni, credo che sia l'unica strada percorribile. Quindi, come dire, la mia relazione, il mio intervento si conclude ancora una volta con un invito a liberarci dalla logica. dell'identità e entrare invece più decisamente, più coraggiosamente in una logica delle relazioni.
Grazie.