L'adolescenza di Clara trascorse dolcemente nella grande casa a tre cortili dei suoi genitori, vezzeggiata dai suoi fratelli maggiori e sorelle, da Severo che la prediligeva fra tutti i suoi figli, da Nivea e dalla Nana che alternava le sue sinistre incursioni, mascherata da Babau con le più tenere cure. Quasi tutti i suoi fratelli e sorelle si erano sposati o erano partiti, chi per viaggiare, chi per lavorare in provincia, e la grande casa. che aveva ospitato una famiglia numerosa era quasi vuota con molte stanze chiuse.
La bimba occupava il tempo che i suoi precettori le lasciavano libero leggendo, muovendo gli oggetti più disparati senza toccarli, inseguendo barrabass, facendo giochi di divinazione e imparando a lavorare a maglia che fra tutti i lavori domestici era l'unico che sapesse fare bene. Da quel giovedì santo in cui padre Restrepo l'aveva accusata di essere indemoniata, Ci fu un'ombra sulla sua testa che l'amore dei genitori e la discrezione delle sue sorelle riuscì a tenere sotto controllo, ma la fama delle sue strane abilità circolava a bassa voce nelle riunioni delle signore. Nivea si rese conto che nessuno invitava sua figlia e perfino i suoi stessi cugini e cugine la evitavano.
Fece in modo da compensare la mancanza di amici e amiche con la sua dedizione completa, con un successo tale che che Clara crebbe allegramente e negli anni successivi avrebbe ricordato la sua infanzia come un periodo luminoso della sua esistenza, nonostante la solitudine e il mutismo. Per tutta la vita avrebbe serbato nella memoria le serate spartite con la madre all'uscita della stanza da lavoro dove Nivea cuciva a macchina indumenti per i poveri e le raccontava storie e aneddoti di famiglia, le indicava i dagarrotipi sulle pareti e le narrava il passato. Vedi questo signore così serio con una barba da bucaniere?
È lo zio Matteo, che se ne andò in Brasile per un affare di smeraldi, ma una mulatta di fuoco gli fece il malocchio, gli cadero i capelli che gli si staccarono come le unghie e gli traballavano i denti. Dovete andare da un fattocchiere, uno stregone voodoo, un nero nerissimo, che gli diede un amuleto e gli si fermarono i denti, gli spuntarono unghie nuove e gli ricrebbero i capelli. Guardalo figliola, ha più capelli di un indiano. È l'unico calvo nel mondo a cui siano tornati i capelli.
Clara sorrideva senza dire niente e Nivea seguitava a parlare perché si era abituata al silenzio di sua figlia. D'altro canto aveva la speranza che a furia di metterle idee nella testa prima o poi avrebbe fatto una domanda e avrebbe recuperato la parola. E questo, diceva, è lo zio Juan. Gli volevo molto bene. Una volta mollò una scoreggia e fu la sua condanna a morte, una grande disgrazia.
Accade a una colazione sull'erba. Era una fragrante giornata di primavera e tutte noi cugine eravamo riunite con i nostri vestiti di mussolina e i capelli con nastri e fiori. I ragazzi sfoggiavano i loro migliori abiti della domenica. Juan si tolse la sua giacchetta bianca, mi sembra di vederlo.
Si rimboccò le maniche della camice e si appese gagliardo al ramo di un albero per suscitare con prodezze da trapezista l'ammirazione di Costanza Andrade, che era stata eletta regina della vendemmia. perché dalla prima volta che lui l'aveva vista aveva perso la pace, divorato dall'amore. Juan fece due flessioni perfette, un giro completo e al movimento successivo lanciò una sonora ventosità. Non ridere, Clarità, fu terribile. Calò un silenzio confuso e la regina della vendemmia cominciò a ridere senza ritegno.
Juan si infilò la giacca, era molto pallido, si allontanò in fretta dal gruppo e non lo vedemmo mai più. Lo cercarono perfino nella legione straniera. Chiesero di lui in tutti i consolati ma non si seppe mai più nulla della sua esistenza. Io credo che si sia fatto missionario e che se ne sia andato a curare le brosi nell'isola di Pasqua, che è il posto più lontano dove si possa arrivare per dimenticare e per essere dimenticati, perché rimane fuori dalle rotte di navigazione, non è neppure segnato sulle mappe degli olandesi.
da allora la gente lo ricorda come juan de la scoreggia nivia portava sua figlia alla finestra e le indicava il tronco secco del pioppo era un albero enorme diceva l'ho fatto tagliare prima che nascesse mio figlio maggiore di cono fosse così alto che dalla punta si poteva vedere tutta la città ma l'unico che sia arrivato in cima non aveva occhi per vederla ogni uomo della famiglia del valle quando era tempo di mettersi i pantaloni lunghi ha dovuto arrampicarvisi per dar prova di coraggio Era qualcosa come un rito d'iniziazione. L'albero era pieno di tacche. Io stessa ho potuto verificarlo quando l'hanno abbattuto. Dai primi rami intermedi, grossi come canne fumarie, si potevano già vedere le tacche lasciate dai nonni, che avevano compiuto l'ascesa ai loro tempi. Dalle iniziali incise nel tronco, si sapeva di quelli che erano saliti più in alto, i più coraggiosi, e anche di quelli che avevano rinunciato spaventati.
Un giorno toccò. toccò a Geronimo, il cugino cieco. Salì tastando i rami senza vacillare perché non vedeva l'altezza e non temeva il vuoto. Arrivò in cima ma non poté finire la lettera iniziale del suo nome perché si staccò come un bacello e cadde a terra di testa. Ai piedi di suo padre e dei suoi fratelli aveva 15 anni.
Portarono il corpo avvolto in un lenzuolo a sua madre. La povera donna sputò in faccia a tutti. gridò insulti da marinaio e maledisse la razza degli uomini che avevano incitato suo figlio a salire sull'albero finché le monache della caridad non se la portarono via legata in una camicia di forza io sapevo che un giorno i miei figli avrebbero dovuto continuare questa barbara tradizione perciò lo feci tagliare non volevo che luì se gli altri bambini crescessero con l'ombra di questo patibolo alla finestra talvolta clara accompagnava sua madre e due o tre amiche suffragiste a visitare fabbriche dove si hissavano su grandi casse per arringare le operaie mentre a prudente distanza i capisquadra e i padroni le osservavano ridanciani e aggressivi nonostante la sua tenera età e la sua totale ignoranza delle cose del mondo clara poteva percepire l'assurdità della situazione ed escriveva nei suoi quaderni il contrasto provocato da sua madre e dalle sue amiche con pellicce e stivaletti di camoscio che parlavano di oppressione, uguaglianze e diritti a un gruppo triste e rassegnato di operaie con i loro duri grembiuli di tele e le mani arrossate dai geloni.
Dalla fabbrica le suffragiste se ne andavano alla pasticceria della Plaza de Armas a prendere il tè con pasticcini e a discutere dei progressi della campagna politica, senza che questa frivola distrazione le scostasse nemmeno di un millimetro dai loro infiammati ideali. Altre volte sua madre. la portava nei quartieri periferici e nei rioni popolari in cui arrivavano con la carrozza carica di generi alimentari e d'indumenti che nivea e le sue amiche preparavano per i poveri anche in questi casi la bimba scriveva con stupefacente intuizione che le opere di carità non potevano mitigare la monumentale ingiustizia il rapporto con sua madre era allegro e intimo e nivea nonostante avesse avuto quindici figli e figlie la trattava come se fosse stata l'unica annodando un vincolo così forte che si protrasse fra le generazioni successive come una tradizione familiare. La nana si era trasformata in una donna senza età che conservava intatta la forza della sua gioventù e poteva saltellare negli angoli per spaventare il mutismo, così come poteva trascorrere la giornata rimestando con un bastone la marmita di rame su un fuoco d'inferno in mezzo al terzo cortile dove gorgogliava la marmellata di cotogne. un liquido spesso color del topazio che raffreddandosi si trasformava in forme di ogni dimensione che nivia distribuiva ai suoi poveri abituata a vivere circondata da bambini quando la maggior parte di questi erano cresciuti e se n'erano andati la nana aveva riversato su clara tutta la sua tenerezza anche quando la bambina non ne aveva più l'età le faceva il bagno come a una creatura tenendola a mollo nella bagnarola smaltata e piena d'acqua profumata al basilico e al gelsomino la strofinava con una spugna la insaponava meticolosamente senza dimenticare alcun interstizio delle orecchie e dei piedi la frizionava con acqua di colonia la incipriava con un piumino di cigno e le spazzolava i capelli con infinita pazienza fino a farli diventare brillanti e docili come una pianta marina la vestiva le apriva la stanza le portava la colazione su un vassoio la obbligava a bere infusi di tiglio per i nervi, di camomilla per lo stomaco, di limone per la trasparenza della pelle, di ruta per la bile, di menta per la freschezza dell'alito, finché la bambina non si trasformò in un essere angelico e di un'esistenza di un'esistenza di un'esistenza.
bello che passeggiava per i cortili e i corridoi avvolta in un aroma di fiori, un fruscio di gonne inamidate e un alone di riccioli e nastri. Clara trascorse l'infanzia ed entrò nella giovinezza fra le pareti della sua casa, in un mondo di storie stupefacenti, di silenzi tranquilli, in cui il tempo non era scandito da orologi e da calendari, e dove gli oggetti avevano una vita propria, le apparizioni si sedevano a tavola e parlavano con gli umani, Il passato e il futuro facevano parte della stessa cosa e la realtà del presente era un caleidoscopio di specchi disordinati in cui tutto poteva succedere. È una delizia per me leggere i quaderni di quell'epoca in cui è descritto un mondo magico che ha finito.
Clara abitava un universo inventato da lei, protetta dalle avversità della vita dove la verità prosaica delle cose materiali. si confondeva con la verità tumultuosa dei sogni nei quali non sempre funzionavano le leggi della fisica e della logica clara visse questo periodo immersa nelle sue fantasie accompagnata dagli spiriti dell'aria dell'acqua e della terra così felice da non provare la necessità di parlare per nove anni tutti avevano perso la speranza di sentirle di nuovo la voce quando il giorno del suo compleanno Dopo aver soffiato sulle 19 candeline della sua torta al cioccolato, inaugurò una voce che era stata custodita per tutto quel tempo e che aveva risonanza da strumento scordato. «Presto mi sposerò», disse. «Con chi?
», chiese Severo. «Col fidanzato di Rosa», rispose. E allora si resero conto che aveva parlato per la prima volta in tutti quegli anni e il prodigio scosse la casa nelle sue fondamente e provocò il pianto di tutta la famiglia. Si chiamarono l'un l'altro, si sparse la notizia per la città, consultarono il dottor Cuevas che non poteva crederci. E nella confusione suscitata dal fatto che Clara aveva parlato, tutti dimenticarono quello che aveva detto e non se ne ricordarono, fino a due mesi dopo, quando comparve Esteban Trueba, che non avevano più visto dopo la sepoltura di Rosa, a chiedere la mano di Clara.
Esteban scese alla stazione e portò da solo le sue due valigie. La tettoia di ferro che avevano costruito gli inglesi, imitando la stazione Vittoria, ai tempi in cui avevano la concessione delle ferrovie nazionali, non era per nulla cambiata dall'ultima volta che era stato lì anni prima. Gli stessi vetri sudici, gli stessi bambini lustra scarpe, le stesse venditrici di pane all'uovo e di dolci creoli e gli stessi facchini dai berretti scuri con lo stemma della corona britannica, che a nessuno era venuto in mente di sostituire con un altro dai colori della bandiera. prese una carrozza e diede l'indirizzo della casa di sua madre. La città gli sembrò sconosciuta.
C'era un disordine di modernità, un putiferio di donne che mostravano i polpacci di uomini con panciotto e pantaloni con risvolto, un fracasso di operai che facevano perforazioni nella rete stradale, che toglievano alberi per sistemare pali, che toglievano pali per sistemare edifici, che toglievano edifici per piantare alberi. Una c***a! confusione di venditori ambulanti che gridavano le meraviglie della fila coltelli delle noccioline americane del bambolotto che balla da solo senza fili senza cavi lo provi lei stesso lo prenda in mano un vento di immondezzaie di fritture miste di fabbriche di automobili che s'intoppavano fra le carrozze e i tram a trazione a sangue come chiamavano i cavalli vecchi che tiravano gli omnibus un ansimare di folla un rumore di corse di andirivieni frettoloso di impazienza e di orario fisso.
Esteban si sentì oppresso, udiava quella città molto più di quanto ricordasse. Evocò i pioppeti della campagna, il tempo misurato dalle piogge, la vasta solitudine dei suoi campi, la fresca quiete del fiume e della sua casa silenziosa. E una città di merda, concluse.
La carrozza lo portò al trotto alla casa dove era cresciuto. Si impressionò vedendo come si era deteriorato il quartiere in quegli anni. da quando i ricchi avevano voluto vivere più in alto degli altri e la città era cresciuta sino alle falde della cordilliera della piazza dove giocava da bambino non rimaneva nulla era un posto incolto pieno di banchi del mercato sistemati in mezzo alle immondizie tra cui frugavano i cani randagi la sua casa era slabbrata vide tutti i segni del passare del tempo su la porta vetri con motivi di uccelli esotici incisi sul cristallo passata di moda e sgangherata c'era un battacchio di bronzo a forma di mano femminile che stringeva una palla bussò e dovete aspettare un tempo che gli parve interminabile finché la porta non si apri allo strattone di una corda che andava dal battente fino alla porta superiore della scala Sua madre abitava al secondo piano e affittava il piano terra a una fabbrica di bottoni. Esteban cominciò a salire i gradini scricchiolanti che non erano stati incerati da molto tempo. Una vecchissima donna di servizio, della cui esistenza si era dimenticato completamente, lo aspettava in cima e lo accolse con lacrimose manifestazioni di affetto, nello stesso modo in cui lo accoglieva a quindici anni, quando tornava dallo studio notarile dove si guadagnava da vivere copiando cessioni di proprietà e di poderi sconosciuti.
Nulla era cambiato, neppure la collocazione dei mobili. Ma tutto sembrò diverso a Esteban. Il corridoio dal pavimento di legno rovinato, qualche vetro rotto, ma rattoppato con pezzi di cartone, qualche felce polverosa che languiva in giare ossidate e in portavasi di maioli cascheggiati, un fetore di cibo e di piscio che rivoltava lo stomaco. Che povertà!
Pensò Esteban senza spiegarsi dove andava a finire tutto il denaro che mandava sua sorella per vivere decentemente. Ferula gli andò incontro con una triste smorfia di benvenuto. Era molto mutata. Non era più la donna opulenta che aveva lasciato anni prima.
Era dimagrita e il naso sembrava enorme sul suo viso angoloso. Aveva un'aria di malinconia e di foschezza, un odore intenso di lavande e di abiti vecchi. Si abbracciarono in silenzio.
Come sta la mamma? chiese esteban vieni a vederla ti aspetta disse lei passarono per un corridoio di stanze comunicanti tra loro tutti uguali buie di pareti funebri di soffitti alti e di finestre strette con tappezzeria di carta a fiori scoloriti e fanciulle languide macchiate dalla caligine dei braceri e dalla patina del tempo e della povertà da molto lontano giungeva la voce di un annunciatore della radio che propagandava le pillole del dottor ross piccole ma efficaci, che combattono la stitichezza, l'insonnia e l'alito cattivo. Si fermarono dinanzi alla porta chiusa della camera di donna Esther. «È qui», disse Ferula. Esteban aprì la porta e gli ci vollero alcuni secondi per vedere nell'oscurità.
L'odore di medicina e di marcio lo colpì in faccia. Un odore dolciastro di sudore, di umidità, di ambiente chiuso e di qualcosa che, dapprima non riuscì a identificare. ma che immediatamente gli aderì come un morbo l'odore della carne in decomposizione la luce entrava come un filo dalla finestra socchiusa vide il letto matrimoniale dove era morto suo padre dove aveva dormito sua madre dal giorno delle nozze un letto di legno nero intagliato con baldacchino di angeli sbalzati e alcuni brandelli di broccato rosso avvizziti dall'uso sua madre stava semiseduta era un blocco di carne compatta una costruosa piramide di grasso e di indumenti che finiva in una piccola testa calva, con gli occhi dolci, sorprendentemente vivi, azzurri e innocenti. L'artrite l'aveva trasformato in un essere monolitico. Non poteva piegare le articolazioni né girare la testa.
Aveva le dita rattrapite, come le zampe di un fossile, e per mantenere la posizione nel letto aveva bisogno dell'appoggio di una cassa dietro le spalle, sorretta da una trave di legno. che a sua volta si appoggiava alla parete. Si notava il trascorrere degli anni dai segni che il trave aveva scalfito nel muro, una traccia di sofferenza, un sentiero di dolore.
«Mamma! » mormorò Esteban e la voce gli si ruppe nel petto in un pianto trattenuto che cancellava con un colpo di spugna i ricordi tristi, l'infanzia povera, gli odori rancidi, le mattinate fredde e la minestra unta della sua infanzia. la madre malata il padre assente e quella rabbia che gli logorava le budella dal giorno in cui aveva raggiunto l'uso della ragione che dimenticava tutto meno gli unici momenti luminosi in cui quella donna sconosciuta che giaceva nel letto l'aveva cullato tra le braccia gli aveva toccato la fronte per sentire se avesse la febbre gli aveva cantato una ninna nanna si era chinato con lui sulle pagine di un libro e aveva singhiozzato di pena vedendolo alzarsi all'alba per andare al lavoro quando era ancora un ragazzino.
Aveva singhiozzato di allegria, vedendolo tornare di notte, aveva singhiozzato. Madre, per me. Donna Esther tese la mano, ma non era un saluto, bensì un gesto per trattenerlo.
Figlio, non si avvicini. E aveva la voce intatta, così come la ricordava, la voce canterina e sana di una giovinetta. È per l'odore, chiarì Ferula seccamente. Si appiccica. Esteban tolse la coperta di damasco sfilacciato e vide le gambe di sua madre.
Erano due colonne livide, elefantesche. coperte di piaghe in cui le larve delle mosche e i vermi facevano nidi e scavavano gallerie, due gambe che marcivano vive, con due piedi sproporzionati di un palido colore azzurro, senza unghie alle dita, che scoppiavano nel loro stesso pus, nel sangue nero, nella fauna abominevole che si nutriva della sua carne. «Madre, in nome di Dio, della mia carne! » «Il dottore vuole tagliarmele, figlio», disse Esther con la sua tranquilla voce da ragazza.
«Ma sono troppo vecchia per questo e sono molto stanca di soffrire. Così è meglio che muoia. Ma non volevo morire senza vederla, perché in tutti questi anni ero arrivata al punto da pensare che lei fosse morto e che le sue lettere le scrivesse sua sorella per non darmi questo dolore. Si metta alla luce, figlio, perché possa vederla bene. In nome di Dio, sembra un selvaggio!
» «E'la vita di campagna, mamma! » mormorò lui. «Davvero?
Sembra ancora forte. Quanti anni ha? » «Trentacinque. Oh, l'età giusta per sposarsi e per mettere la testa apposta finché io possa morire in pace! » «Lei non morirà, mamma!
» supplicò Esteban. «Voglio essere sicura che avrò dei nipoti, qualcuno che abbia il mio sangue, che conservi il nostro nome. Ferula ha perso la speranza di sposarsi, ma lei deve cercarsi una moglie, una donna perbene e cristiana. Ma prima deve tagliarsi quei capelli e quella barba, mi ha sentita, figlio? » e stebana annui s'inginocchiò accanto a sua madre le affondò il viso nella mano gonfia ma l'odore lo spinse indietro ferula lo prese per un braccio e lo fece uscire da quella stanza da incubo fuori respirò profondamente con l'odore appiccicato alle narici e allora sentì la rabbia la sua rabbia tanto nota salirgli come un'ondata calda alla testa iniettagli gli occhi metter bestemmie da bucaniere sulle sue labbra rabbia per il tempo trascorso senza pensare a lei Madre, rabbia per non essermi interessato a lei, per non averla amata e curata abbastanza, rabbia per essere un miserabile figlio.
No, scusi madre, non volevo dire questo. Ma sta morendo, vecchia, e io non posso fare niente, neppure mitigarle il dolore, alleviarle la putredine, e togliere quell'odore spaventoso, questo brodo di morte nel quale sta cuocendo, madre. Due giorni dopo. Donna Esther morì nel letto dei suoi tormenti dove aveva tribolato negli ultimi anni della sua vita.
Era sola perché sua figlia Ferula era andata, come tutti i venerdì, nei rioni dei poveri, nei quartieri della misericordia, a recitare il rosario per gli indigenti, per gli atei, per le prostitute e per gli orfani, che le tiravano dietro porcherie, le rovesciavano in testa a vasi da notte e le sputavano addosso, mentre lei, in ginocchio nel vicolo del rione, gridava a Padre Nostri e Ave Maria. in un'instancabile litania sgocciolante del sudiciume dei poveri degli sputi degli atei dei rifiuti delle prostitute e dell'immondizia degli orfani piangendo ah che umiliazione chiedendo perdono per coloro che non sanno quello che fanno e sentendo che le ossa le diventavano molli che un languore mortale le trasformava le gambe in bambagia che un calore d'estate le infondeva peccato tra le cosce allontana da me questo calice signore che il ventre le scoppiava in fiamme infernali ah di santità di paura padre nostro non mi far cadere in tentazione gesù neppure steban era con donna ester quando questa morì silenziosamente nel letto dei tormenti era andato a trovare la famiglia del vaio e per vedere se avevano ancora qualche figlia nubile perché dopo tanti anni di assenza e di imbarbarimento non sapeva da dove cominciare per compiere la promessa fatta alla madre di darle dei nipoti legittimi E aveva concluso che, se Severo e Nivea l'avevano accettato come genero ai tempi di Rosa la Bella, non c'era alcun motivo che non l'accettassero di nuovo, specialmente adesso che era un uomo ricco e non doveva scavare la terra per strapparle il suo oro, bensì aveva tutto il necessario sul suo conto in banca. E Stebano e Ferula trovarono quella notte la madre morta nel letto. Aveva un sorriso calmo, come se nell'ultimo istante della vita la malattia avesse voluto risparmiarle la sua quotidiana. Tortura