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Fascismo e Romanità: Analisi Critica

Cos’hanno in comune questo edificio… questo monumento… questa statua… questa colonna? … Poco e nulla. Al massimo l’età: due di questi hanno secoli alle spalle, altri ne hanno appena uno. I primi sono stati costruiti all’epoca degli antichi romani. Gli ultimi: durante il Ventennio Fascista. Domanda da Marcia su Roma: da cosa nasce l’interesse del fascismo per la simbologia romana? Storici come Luciano Canfora, Andrea Giardina ed Emilio Gentile si occuparono tutti della questione, ma Renzo De Felice fu il primo a trattare al modo in cui il regime sfruttò il mito della romanità per trarre consenso e celebrazione. In una lunga intervista a Margherita Sarfatti, intellettuale ebrea e per diversi anni amante ed inspiratrice di Mussolini, fu proprio De Felice a riferire: “Margherita aveva un vero e proprio culto per la romanità che probabilmente instillò nel futuro Duce, il quale abbinò i fasti del regime a quelli dell’antica Roma”. La tesi di un altro studioso, Canfora, è sostanzialmente che il regime avrebbe utilizzato il mito romano per legittimare il carattere antidemocratico del fascismo, esaltare il concetto di disciplina e di imperialismo coloniale, celebrare il mito, il fascino della grande potenza e la figura del capo carismatico. A dirla tutta, la propaganda fascista non fece ricorso solo a miti romani, ma anche rinascimentali o risorgimentali, presentandosi come l’erede e il continuatore della rinascita nazionale; perfino elementi stranieri come il fez turco o il motto usato per la prima volta dai legionari dannunziani, quell’evviva, “Eia! Eia! Alalà!”, gridato durante le celebrazioni, dimostrano la facilità con cui il fascismo prendeva qua e là elementi non propriamente italiani. Lo stesso potrebbe dirsi circa la decisione di Mussolini, dopo la conquista dell’Etiopia e l’avvicinamento a Hitler, di introdurre nelle parate militari il passo dell’oca tedesco, ribattezzato romano, che in realtà con l’antichità non aveva nulla a che vedere. Questi e tanti altri casi non erano altro che mere strumentalizzazioni, vere e proprie distorsioni della realtà storica, funzionali alla propaganda. Tuttavia, come ha osservato lo storico Giardina, ciò non significa credere che lo stesso Mussolini pensasse a una sorta di restaurazione o ritorno al passato: al contrario, il mito dell’antichità aveva lo scopo dichiarato di progettare un mondo nuovo e moderno, ispirato alla potenza e alla disciplina di presunta derivazione romana. In pratica cercava di trarre dal passato una sorta di legittimazione storica e uno strumento di pressione sulla società per fare tutta una serie di cambiamenti. Tanto quanto in un altro regime, quello sovietico, anche nel Fascismo il singolo contava poco o nulla rispetto alla collettività: a essere tutto era lo Stato; per rafforzare questa visione si fece ampio ricorso alla romanità, presentata come un modello di coesione sociale. Lo stesso Giardina scrive “la romanità fascista non era un fossile, da riprodurre come in un museo”. Alle stesse conclusioni arriva Gentile, quando afferma che: “il romano della modernità era un individuo assorbito nella società di massa e del partito unico: era il “cittadino soldato”, interamente dedito, anima e corpo, allo Stato fascista”. Così, il fascismo diffuse in modo pervasivo il mito della cosiddetta terza Roma, dopo quella dei Cesari e dei Papi, con l’obiettivo di proiettare il paese verso un ruolo di grandezza e potenza; questo non fu l’unico mito, ma si rivelò utile per ricercare il consenso delle masse, perfino quando il regime – con decisioni repentine e veri e propri giri di valzer – modificava radicalmente la sua politica (come avvenne, ad esempio, col varo delle leggi razziali). Per quanto suoni paradossale, persino le più feroci dittature cercano un certo margine di consenso, per preservare e perpetuare il proprio potere: il fascismo non fu da meno. Mussolini, non dimentichiamolo mai, veniva dal mondo del sindacalismo rivoluzionario e del giornalismo, per cui era pienamente consapevole dell’importanza del consenso. A proposito di mutamenti, la stessa opinione del futuro duce nei riguardi della città di Roma, come del mito dell’antichità, cambiano col passare degli anni. Leggendo il programma dei fasci di combattimento del 1919 non troviamo il benché minimo cenno alla Roma dei cesari. Ancora più indietro nel tempo, Mussolini si era espresso in toni poco lusinghieri sulla capitale, come quando, ancora socialista rivoluzionario, la definiva. Nel maggio del 1922, pochi mesi prima della marcia su Roma, scrisse sul Popolo d’Italia, il quotidiano da lui fondato e diretto dal 1914, di una città infettata dalla più predace e parassitaria borghesia, sede dei principali giornali antifascisti. Queste dichiarazioni si ponevano in linea con un certo sentimento antiromano diffuso in varie parti d’Italia dopo il 1861: pur coi dovuti distinguo, Roma era vista come la rappresentazione di una serie di elementi negativi che avevano caratterizzato il nuovo stato unitario – accentratore, burocratico, trasformista – contrapposta a quella che già all’epoca era definita “la capitale morale”, Milano, nella quale lo stesso Mussolini visse prima di assumere la guida del governo. Vista la tendenza tutta italiana al trasformismo e al cambio bandiera, anche i sentimenti antiborghesi del fascismo ebbero, col tempo, la tendenza a scemare, tanto che Indro Montanelli scriverà che il fascismo, archiviata la fase della rivoluzione, era divenuto amministrazione, con al centro proprio la città di Roma. A partire dal 1921, quando per la prima volta venne eletto deputato, Mussolini parlerà di una sua “riconciliazione” con la capitale; difficile dire se fosse sincero o meno. Una cosa, però, è certa. Mussolini non abbandonò mai l’idea di fare della capitale borghese e burocratica, una città nuova, degna dei fasti del periodo romano e imperiale. La capitale, in pratica, doveva trasformarsi per lui nel simbolo del nuovo avvenire di grandezza e potenza sognato dal fascismo, anche in senso visivo e architettonico. Come in tante altre cose, Mussolini non s’inventò nulla di suo: l’idea di usare il mito della romanità per creare una società nuova, guerriera e imperialista, circolava da due decenni. Ne era stati fautori, tra gli altri, il nazionalista Enrico Corradini e il poeta d’Annunzio. Il 21 aprile 1921 Mussolini annunciò la celebrazione del Natale di Roma, che sarebbe diventata ricorrenza ufficiale durante il ventennio, rimpiazzando la festività del primo maggio (ovviamente abolita), con una sfilata della milizia fascista per le vie della capitale. Anticipando per la prima volta l’infausto concetto di razza, Mussolini in quell’occasione riportò: “Celebrare il Natale di Roma significa celebrare il nostro tipo di civiltà, significa poggiare fermamente sul passato per meglio slanciarsi verso l’avvenire. Roma e Italia sono due termini inscindibili. […] Molto di quello che fu lo spirito immortale di Roma risorge nel fascismo: romano è il Littorio, romana è la nostra organizzazione di combattimento, romano è il nostro orgoglio e il nostro coraggio: Civis romanus sum”. Se avesse visto il nostro primo video della Serie sui popoli pre-romani, penso avrebbe riconsiderato le sue farneticazioni sulla presunta “Razza italica”. Mussolini sfruttò ampiamente il mito dell’antica Roma, prima e dopo il congresso del ’21, per cementare un movimento tutt’altro che unitario agli inizi degli anni Venti e per combattere gli avversari nemici politici (i partiti borghesi e della sinistra), contro i quali il movimento fascista – che si presentava sempre più come erede della romanità e fautore della rinascita nazionale – rivendicava il monopolio della cosa pubblica (cosa che fece tra il ’25 e il ’26). Una volta conquistato il potere, il fascismo adotterà un calendario parallelo, espresso in numeri romani, che indicava l’era fascista partendo dal 1922, destinato ad affiancare quello ordinario nelle celebrazioni e pubblicazioni. Il duce non perse poi tempo nel progetto di edificare, anche e soprattutto materialmente, la nuova Roma. Nel 25 aveva già messo in cantiere i progetti per una profonda revisione urbanistica della capitale, che negli anni a venire ne avrebbero completamente trasformato il centro storico, rimuovendo per sempre caseggiati e quartieri simbolo della città medievale e rinascimentale, per “liberare” – così si espresse il regime – i tanti monumenti dell’antichità; come se ci fosse un’antichità buona e una cattiva. Se già nel 1923 presero avvio una serie di operazioni che finiranno per distruggere gran parte del centro storico di Roma, nel 1924 saranno le abitazioni edificate sopra o in prossimità dei mercati e del foro di Traiano, di Augusto e di Cesare, collocati sul lato sinistro dell’altare della patria, ad essere demolite. Negli anni seguenti furono in aggiunta avviati i lavori nell’attuale piazza di Torre Argentina e vicino al Teatro di Marcello, dove Mussolini in persona, simbolicamente, diede il primo colpo di piccone per i lavori di recupero. Alla fine degli anni Venti vennero rasi al suolo i quartieri medievali che si trovavano alla destra dell’altare della patria, per poi iniziare coi lavori per la realizzazione della nuova via dell’Impero (oggi via dei Fori Imperiali), che avrebbe collegato piazza Venezia - sede dal 1929 degli uffici di Mussolini - al Colosseo, cancellando, tra gli altri, il quartiere cinquecentesco costruito sui fori di Augusto e Nerva e numerose strade preesistenti (come via san Lorenzo o Del Lauro o Cremona), liberando un’area di circa 40mila metri quadrati. Tra le altre opere la nuova via del mare, frutto della demolizione di case e chiese situate tra l’Ara Coeli, piazza San Marco e le pendici del campidoglio, che avrebbe collegato la capitale al mare (lido di Ostia). Nel 1934 sarà inoltre recuperata l’area del circo massimo, destinata ad ospitare le mostre organizzate dal PNF. Tra l’altro, dopo il Concordato del 1929, ci furono altri lavori di demolizione nel centro storico per aprire la nuova via della Conciliazione, via che conduceva (e conduce) verso piazza San Pietro. Ora, se qualcuno si chiedesse che fine fecero i cittadini – borghesi, artigiani, operai – che videro buttare giù (senza permesso) le loro case è presto detto: molti di loro furono trasferiti in grandi alloggi popolari presso il quartiere di Garbatella o in borgate costruite in fretta e furia nella periferia; furono circa 150mila le persone che si spostarono dal centro alle zone periferiche. Gran parte della vecchia Roma medievale e papalina finì per scomparire per sempre, per lasciare spazio alla nuova capitale voluta da Mussolini. I lavori e la furia demolitrice e revisionista contribuirono negli anni Venti e Trenta ad un incremento significativo della popolazione capitolina, cresciuta di oltre il 74%, circa 800mila persone in più, solo tra il 1921 e il 1936, mentre la distribuzione degli abitanti acutizzava le divisioni sociali: borghesia e ceti medi risiedevano nel centro nord, le classi popolari in periferia e sul lato meridionale. C’è poi da ricordare che un ruolo minore per il culto della romanità ebbe lo ebbe anche l’industria cinematografica. Sebbene definita da Mussolini l’arma più forte (intesa come propaganda), le pellicole dedicate all’antichità non furono numerose ed ebbero un successo molto limitato, a cominciare dal kolossal Scipione l’Africano, di Carmine Gallone, incentrato sullo scontro tra la civiltà occidentale e quella africana di Cartagine. Il film, che mirava a creare un parallelo tra Mussolini e l’antico condottiero romano che vinse i cartaginesi, non ripagò le aspettative e gli investimenti. All’epoca si era all’apogeo del regime… subito dopo la guerra d’Etiopia, che permise a Mussolini di proclamare dinanzi alla folla riunita sotto il balcone di Palazzo Venezia, la sera del 9 maggio 1936, la rinascita dell’impero sui “colli fatali” di Roma; per la cronaca il balcone teatro delle grandi adunate oceaniche di regime era all’epoca contornato dei fasci littori, che sarebbero stati rimossi totalmente solo ai primi del nuovo millennio. Con la conquista etiope, la figura di Mussolini, sempre più circondata di tratti mitici e simbolici, venne celebrata in occasione della mostra augustea della romanità, inaugurata il 23 settembre 1937; nel 1930 e nel 1935 ce n’erano state altre dedicate a Virgilio e Orazio, ma nessuna delle due aveva avuto tanta enfasi. Non stupiscono, nel clima celebrativo di quegli anni, le parole del l’archeologo Giulio Quirino Giglioli, direttore della mostra, che inaugurando l’esposizione parlò del duce come del «novello Augusto della risorta Italia imperiale». E non fu certo l’unico che in questa sorta di gara per paracularsi Zio Benito stese improbabili paragoni tra Mussolini e figure storiche come Cesare o Ottaviano. Per le celebrazioni del bimillenario della nascita di Augusto, il 23 settembre del 38, Mussolini non si fece mancare l’inaugurazione dell’Ara Pacis Augustae, protetta dalla teca dell’architetto Vittorio Morpurgo. Era evidente l’intento di identificarsi col primo imperatore di Roma, indicato come il creatore del nuovo ordine universale fondato sull’impero; nei giorni successivi alla notizia della vittoria in Etiopia, Mussolini si era recato in Campidoglio per deporvi l’alloro dei fasci, come (pare) avesse fatto Augusto, dando ordine di edificare un gigantesco obelisco di 24 metri dinanzi al ministero dell’Africa italiana (dove oggi ha sede la FAO). Così, portata a termine la missione etiope, fu varato un nuovo e importante progetto urbanistico iniziato nel 37 ma poi interrotto con lo scoppio della guerra: la costruzione di una nuova città nella periferia romana, in vista della candidatura della capitale come sede dell’esposizione universale del 1942. Il nuovo quartiere chiamato E42 (l’attuale EUR), acronimo per esposizione universale 1942, avrebbe dovuto essere la rappresentazione architettonica, simbolica e funzionale di una nuova concezione dell’uomo, della politica e dello Stato, un punto d’incontro tra passato e futuro, oltre che fungere da vetrina internazionale per il regime. Lo stesso stile architettonico neoclassico e fascista mirava a unire antico e moderno, si pensi al foro Mussolini, l’attuale foro Italico, destinato ad accogliere le organizzazioni giovanili del regime. Qualche anno prima, nel 39, era stato collocato nell’atrio del Palazzo degli Uffici dell’Eur un bassorilievo, realizzato da Publio Morbiducci: l’opera riprendeva episodi della Roma antica, partendo dalla fondazione dell’Urbe, per arrivare alla rappresentazione di un Mussolini a cavallo, acclamato da due fanciulli. Un evidente tentativo ispirato alla colonna di Traiano, per significare la continuità tra antichità e fascismo. Ancora oggi molti di quegli edifici sono in piedi, finiti prevalentemente in musei, uffici bancari e sedi istituzionali, altri simboli invece troppo apertamente ispirati al regime sono stati rimossi o dissimulati: è il caso del genio del fascismo, divenuto genio dello sport nel 1946, una statua rappresentante un atleta, alla quale fu aggiunto un guantone da lottatore per celare il saluto romano; ancora oggi sono presenti frasi del repertorio mussoliniano, come quella del palazzo della Civiltà che definiva gli italiani “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori.” Forse oggi ci sembrano lontani i giorni in cui l’arte fungeva da propaganda e i treni arrivavano in orario, ma nei secoli l’uomo ha sempre saputo guardare oltre la mera estetica delle opere artistiche e il loro messaggio universale. Sovrani e regnanti ne hanno fatto sfoggio di ricchezza, di sapienza, di raffinatezza, spesso con il benestare degli stessi artisti, ricompensati a dovere. Ma questo accade anche oggi. Sì, l’arte contemporanea con la sua forte carica critica, l’anticonformismo e il denso intellettualismo non si presta all’esaltazione di governanti e miliardari, ma un’occhiata ai prezzi a cui queste opere vengono vendute dalle principali aste in giro per il mondo potrebbe ispirarci parecchie domande. L’arte è ancora roba da ricchi? Forse, ma diciamolo meglio. L’arte, oggi, è un florido campo di investimento. Molti fondi infatti stanno iniziando a puntare su assets alternativi, e proprietà immobiliari e arte contemporanea sono oggi un vero e proprio “nuovo tesoro”. L’arte contemporanea ha l'incredibile beneficio di non essere influenzata dal mercato che noi chiameremmo tradizionale, il suo valore è slegato da tutto il resto. 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Nel quadro della battaglia del grano per l’autosufficienza nazionale nella produzione cerealicola, che condussero alle ben note opere di bonifica (come l’agro pontino), i nuovi agricoltori furono chiamati coloni o veli del grano, dal nome dei soldati leggeri – velites – dell’antica Roma. Le bonifiche diedero vita a molte delle cosiddette città nuove – Mussolinia (oggi Arborea), 1928; Littoria (oggi Latina), 1932; Sabaudia, 1934; Pontinia e Guidonia, 1935; Fertilia e Aprilia, 1936, e via dicendo – tutti nomi che spesso riecheggiavano quelli di un’antichità perduta e ora ritrovata. Le cerimonie ufficiali di inaugurazione – in diversi casi con la partecipazione di Mussolini – richiamavano quelle di Roma, con l’utilizzo dell’aratro col quale, secondo la leggenda, Romolo avrebbe tracciato i confini della sua città. Perfino sulle origini familiari di Mussolini i retori del regime trovarono dei legami con l’Urbe, ad esempio quando si disse che il duce era nato in terra di Romagna (precisamente a Predappio) da una famiglia discendente dai coloni romani insediatisi lì nel secondo secolo a. C. E se non bastavano i propagandisti interni, parole altisonanti di richiamo alla romanità le ritroviamo – per lo meno fin quando non cambiarono idea – in bocca a personaggi del calibro di Winston Churchill, che dichiarò di vedere in Mussolini un genio romano e il più grande legislatore vigente. Tuttavia, l’avvicinamento al Terzo Reich fu ostico da digerire non solo per il Signor Winston, ma anche per il popolo italiano. Stavolta il mito romano non si prestava allo scopo, tenuto conto che nel comune sentire (fatto storico non del tutto rispondente al vero, chiarifichiamo) si attribuisce proprio ai germani il crollo dell’impero, senza contare che la comune radice latina rendeva molto più difficile presentare, al contrario, come nazione nemica la Francia: si trattava di palesi contraddizioni, che alla lunga avrebbero danneggiato la credibilità dei proclami ufficiali. Naturalmente il mito della romanità investì molti altri aspetti: ad esempio, a partire dal 1921, la scelta dei nomi e delle gerarchie interne al partito, l’unica forza politica legalmente ammessa dal 1926, richiamavano quelli dell’antica Roma: i principi (o camice nere) e i riservisti (o triari) simboleggiavano il carattere militare del PNF. Ogni squadra era comandata da un caposquadra (e da due vice capisquadra chiamati decurioni), quattro squadre formavano una centuria (comandata dal centurione), quattro di loro costituivano la coorte, guidata dal seniore, mentre nove coorti potevano confluire nella legione, comandata da un console. Nella maggior parte dei casi non esisteva nessuna corrispondenza tra questi ruoli e quelli della Roma antica: nella migliore delle ipotesi c’era una completa distorsione – per esempio nell’antichità i consoli erano i massimi magistrati della repubblica – ma di questo nessuno si preoccupava più di tanto, visto che l’importante era il riferimento alla romanità. Naturalmente gli stessi simboli ufficiali del partito e del regime pescarono a piene mani nell’antica Roma, anche in tal caso con pesanti distorsioni storiche: i gagliardetti, le aquile e il fascio littorio fecero parte integrante della messinscena. Lo stesso termine “fascista”, poi spacciato come di origine romana, non nasceva assolutamente con questo significato, quanto piuttosto dall’associazionismo (fascio inteso come lega) proprio dei movimenti rivoluzionari e operai, come i fasci siciliani creati a fine ‘800 per contrastare il latifondismo. Sotto il profilo grafico, l’emblema del regime era il Fascio Littorio, un insieme di verghe con la scure a lato (simbolo dell’imperium, il potere politico e militare degli antichi magistrati romani), ma ancora una volta non si trattava di un’esclusiva del fascismo. Il fascio era già comparso durante la Rivoluzione francese e durante il risorgimento: l’unica innovazione apportato dal fascismo fu l’aggiunta della scure, che evocava il potere di comminare la pena capitale. Lo stesso dicasi per il saluto romano, poi adottato da tutti i regimi ispirati a quello fascista: non sappiamo con certezza quale fosse il modo di salutare utilizzato dagli antichi nella quotidianità (la stretta di mano? L’abbraccio?), ma di sicuro il braccio teso non era tra questi. Il saluto romano probabilmente ebbe tra gli antichi un utilizzo piuttosto limitato, come in occasioni particolari o nella prassi del saluto rivolto dall’imperatore ai suoi eserciti; il primo ad utilizzarlo, nel saluto rivolto ai suoi legionari, fu Gabriele D’Annunzio, al quale del resto Mussolini si ispirò in diverse circostanze. E a proposito di nomi e rituali, Mussolini durante il regime fu chiamato Duce del fascismo. Il titolo, derivante dal latino Dux (comandante vittorioso o capo militare), non assunse carattere ufficiale sino alla fine degli anni Trenta, quando venne inserito negli atti ufficiali. L’origine, secondo le ricostruzioni più accreditate, non avrebbe però radici latine – presso questi popoli veniva utilizzato per indicare il monarca, in età tardo antica i capi militari nelle province - bensì sindacaliste rivoluzionarie; nel dizionario politico ufficiale del partito, curato dal glottologo Antonino Pagliaro, si legge che l’appellativo, già in uso in ambienti del sindacalismo rivoluzionario per indicare i leader, sarebbe stato utilizzato per Mussolini per la prima volta nel 1915 da Filippo Corridoni, lui stesso rivoluzionario e interventista, in una lettere indirizzata al futuro dittatore e suo commilitone; Invece, nelle ricostruzioni di regime, per suffragare le origini romane del titolo, venne spesso citato un passaggio delle Res Gestae di Augusto, dove si legge: «L’Italia intera di suo proprio volere mi giurò fedeltà e volle me come ‘duce’ nella guerra che vinsi ad Azio». L’appellativo “Duce” si rivelò pertanto assai utile nella diarchia allora vigente in Italia, per attenuare la convivenza col Re, che sulla carta conservava il ruolo di vertice dello stato e di superiore del capo del Governo, ma che in realtà negli anni del regime si rassegnò a obbedirgli, fingendo di averlo ai suoi ordini. Distorsioni propagandistiche a parte, era difficile dimenticare che, se pure i romani erano stati fautori di un imperialismo aggressivo, sottomettendo innumerevoli popoli dell’antichità, avevano dimostrato tolleranza e rispetto per gli usi e la religione dei popoli delle province, spesso manifestando apertura alle diverse culture (come per quella greca) o garantendo diritti e opportunità ai popoli conquistati: un orientamento in netta controtendenza rispetto a quello discriminatorio delle normative razziali applicate nel 38. Il grande castello propagandistico, infarcito di miti ispirati alla romanità, crollò definitivamente con la guerra. La disastrosa esperienza bellica avrebbe reso sempre più evidenti le falsità e le distorsioni della propaganda, mentre persino lo stesso Mussolini si ritroverà ad ammettere che gli italiani contemporanei – depurati di fronzoli, simboli e manifestazioni esteriori – ben poco avevano a che spartire con la figura mitizzata dell’antico romano. Il duce, prendendone atto, si premurò di scaricare le colpe dell’andamento negativo del conflitto al suo popolo, dimentico di aver gettato il paese in una vera e propria tragedia, nell’erronea convinzione di non combattere grazie ai rapidi trionfi dell’alleato tedesco. Il Duce ammise in alcuni sfoghi privati – riportati nei diari del genero e ministro degli Esteri Galeazzo Ciano - di non essere riuscito a creare l’italiano nuovo, prendendosela con la mentalità piccolo borghese radicata nel suo popolo. Sempre nei diari di Ciano, si legge una frase di Mussolini secondo la quale se Michelangelo per le sue opere avesse avuto a disposizione argilla e non marmo, sarebbe stato un ceramista e non uno scultore: il duce riteneva, così, di essere esente da colpe… semplicemente gli mancava la materia prima. Al di là dei deliri di un dittatore allo sbando, il tentativo di romanizzare il popolo italiano (nel senso di rinvigornirne lo spirito guerriero) si era rivelato per quello che era: poco più di un grande circo propagandistico, privo di ogni sostanza. L’epilogo di Salò, quando Mussolini era solo l’ombra di sé stesso e aveva perso ogni controllo sulla stessa città di Roma, ne rappresenterà solo la tragica conferma; non è un caso se quando era già nell’aria la sconfitta, si parlò di Mussolini come di un “romano di cartapesta” o se, dopo il colpo di stato del 25 luglio, comparissero sui muri di alcune città italiane scritte come questa: “Voleva essere Cesare, morì Vespasiano”, con un chiaro riferimento ai bagni pubblici voluti dall’imperatore. Con ogni probabilità – come scrive Emilio Gentile – “I fascisti non furono i romani della modernità, come sognava il duce, ma molti oggi pensano che i romani della Roma antica furono i fascisti dell’antichità.” Un’osservazione molto acuta, che indica la persistenza di un pensiero diffuso, in un certo senso figlio di una propaganda di regime che, questo bisogna ammetterlo, fu in grado di radicarlo nel comune sentire, perfino a molti anni di distanza dal suo crollo. Ad astra.