Amici, buongiorno. Nell’ultimo video avevamo analizzato l’Inno all’anfora, un’ode conviviale. L’ ode che vediamo oggi ha alcuni punti in comune con quella. È piuttosto breve: sette strofe, mentre l’altra ne aveva sei. Anche quest’ode è nel metro della strofe alcaica. Anche qui si parla di un convito, in cui compare un’anfora di vino pregiato. E anche qui è presente un personaggio illustre del tempo di Orazio: Quinto Dellio, le cui vicende ebbero molti elementi in comune con quelle di Messalla Corvino, il personaggio che compariva nell’altra poesia. Tuttavia quest’ode è molto diversa dall’Inno all’anfora, che era un’ode decisamente lieta. Nella poesia di oggi il convito ha un ruolo un po’ diverso. Come accennavo la volta scorsa, riprendendo un’osservazione di Alfonso Traina, in Orazio il convito non è né semplice aneddoto, né semplice convenzione letteraria, ma assume il valore di un archetipo esistenziale. Esso appare come uno spazio, in cui si trovano ancora l’amicizia, la gioia e la bellezza. Orazio visse intensamente, quasi avidamente, l’esperienza del convito e nell’Inno all’Anfora la comunicò a noi, rappresentando uno spazio protetto dagli dèi, illuminato dalla luce tremula delle lucerne. Ma Orazio era anche conscio della notte che incombe tutto intorno; e anche di questa notte parla la poesia che vediamo oggi. L’architettura di quest’ode è importante. Essa comincia con una parte gnomica. La poesia gnomica è la poesia che contiene delle massime (γνώμη è la sentenza proposta ad ammaestramento dell’ascoltatore); è un genere che ebbe uno sviluppo importante nell’antica Grecia. L’ ode inizia con il tema tipicamente epicureo della "aequa mens", dell’animo che non si gonfia scioccamente di orgoglio nella fortuna e non si abbatte di fronte alla sventura. Orazio invita Dellio a serbare un animo imperturbabile nella buona e nella cattiva sorte. Non serve cadere nella tristezza, dice Orazio; tanto vale godere il breve tempo che la sorte ci riserva e non farsi mancare il piacere di gustare un buon vino in un angolo ridente della natura. Da qui emerge il tema del convito, che occupa la parte centrale dell’ode. Poi esso sfuma, per lasciare il posto a quello della brevità della vita, che occupa la parte finale dell’ode, anch’essa gnomica. Chi era questo Dellio, al quale Orazio si rivolge? Quinto Dellio era un personaggio piuttosto importante del suo tempo. Anche lui, come Messalla, era molto ricco e aveva ricoperto incarichi militari. Anche lui si era trovato a combattere a Filippi dalla parte degli sconfitti. La sua vita era stata molto movimentata, piena di alti e bassi. Forse fu anche per questo che Orazio si rivolse a lui in questa poesia. Come sapete, Giulio Cesare era stato assassinato nel 44 a.C. Per qualche mese Marco Antonio, console insieme a Cesare, si trovò a capo del governo e mantenne in vita una situazione di convivenza tra cesariani e cesaricidi; poi però i due schieramenti si avviarono alla guerra civile. Nell’anno 43 Dellio, che aveva seguito il cesariano Publio Cornelio Dolabella in una missione per prendere il controllo della Siria e sottrarla al cesaricida Gaio Cassio Longino, passò servizio di quest’ultimo, dopo che Dolabella, assediato da Cassio, si era ucciso. Quindi sia Orazio che Dellio si trovarono a militare dalla parte dei cesaricidi. Poi, nel 42 a.C., Bruto e Cassio furono sconfitti nelle due battaglie di Filippi e si dettero la morte. A quel punto, Dellio passò nuovamente dalla parte del vincitore, cioè di Marco Antonio, e per una decina d’anni fu suo collaboratore, partecipando anche alla sfortunata spedizione di Antonio contro i Parti nel 36 a.C. Dellio narrò le vicende di questa spedizione in un’opera oggi perduta. Nel frattempo però i rapporti tra Marco Antonio ed Ottaviano, il figlio adottivo di Giulio Cesare, già alleato di Antonio a Filippi, si erano guastati irrimediabilmente. Prima della battaglia di Azio del 31 a.C. Dellio cambiò campo per la terza volta, passando dalla parte di Ottaviano. Antonio, fuggito in Egitto insieme a Cleopatra, si suicidò l’anno successivo, lasciando Ottaviano dominatore incontrastato di un impero, che abbracciava l’intero Mediterraneo. In questa situazione, Dellio riuscì a mantenere una posizione importante, come uno dei consiglieri di Ottaviano Augusto. Per via dei suoi voltafaccia, attuati in circostanze difficilissime, ma sempre andati a buon fine, Messalla Corvino aveva bollato Dellio come il “desultor bellorum civilium”, cioè “l’acrobata delle guerre civili” (il desultor era letteralmente il giocoliere, che saltava da un cavallo in corsa all’altro). La storia di Dellio non entra in questa poesia. Mi sono permesso di menzionarla ugualmente, perché le odi di Orazio ci fanno incontrare molti personaggi caratteristici di un’epoca molto particolare. Ormai sapete che io approfitto di queste poesie, per inserire, in piccole dosi, alcuni accenni a figure della metrica e della linguistica, che sono parte degli strumenti di lavoro di un ogni filologo. Anche nel video oggi ne incontreremo alcune, tra cui l’ossimoro, la sinizesi, l’asindeto, la sinalefe e l’enjambement. Cominciamo però adesso a vedere questa poesia: Aequā́m mĕmḗntō || rḗbŭs ĭn ā́rdŭīs sērvā́rĕ mḗntēm, || nṓn sĕcŭs ī́n bŏnīs āb ī́nsŏlḗntī tḗmpĕrā́tām laetĭtĭā́, mŏrĭtū́rĕ Dḗllī, seu máestŭs ṓmnī || tḗmpŏrĕ vī́xĕrīs, seu te ͜ ī́n rĕmṓtō || grā́mĭnĕ pḗr dĭēs fēstṓs rĕclī́nātū́s bĕā́rīs ī́ntĕrĭṓrĕ nŏtā́ Fălḗrnī. “Ricordati, di conservare un animo imperturbato nelle difficoltà e lontano da una gioia arrogante nelle circostanze favorevoli, o Dellio, che sei destinato a morire, sia che tu viva tutto il tempo nella tristezza, sia che tu, sdraiato in un prato lontano nei giorni festivi, ti sia goduto il Falerno della marca più pregiata.” L’inizio dell’ode è tipico della poesia gnomica. La aequa mens è l’animo imperturbato, letteralmente “che non cambia di livello”, che non si lascia abbattere nelle difficoltà e che non si esalta nei successi. Come precedente letterario, il tema si trovava già in una poesia di Archiloco, della quale abbiamo il frammento corrispondente. Nelle Odi, Orazio prese spesso le mosse da un verso celebre di un antico poeta; poi però sviluppava la sua ode in modo completamente diverso rispetto all’originale. Quella di Orazio non è semplicemente una reminiscenza, la quale potrebbe essere anche involontaria, né tantomeno è un’imitazione, che un autore potrebbe anche voler nascondere. È piuttosto un’allusione, che Orazio intenzionalmente rivolgeva ai propri lettori. Non tutti avranno colto queste allusioni, ma queste avrebbero potuto servire di spunto per conversazioni, riflessioni e forse anche facilitare la circolazione di questi versi. Abbiamo visto un altro esempio di queste allusioni nell’ode sulla morte di Cleopatra “Nunc est bibendum”, che inizia proprio come un carme di Alceo. Anche altri poeti del mondo antico, sia greci che latini, utilizzarono le allusioni; e particolarmente i poeti dell’età augustea, i quali si nutrivano di letteratura. Notate la costruzione della prima proposizione. In latino erano le desinenze a indicare la funzione logica che le parole avevano in una frase, per cui c’era una grande libertà nel disporle, una libertà che le lingue moderne non possono offrire. La frase inizia con aequam e termina con mentem, il sostantivo di cui aequam è l’attributo. Nelle lingue neolatine queste due parole devono essere vicine, mentre qui stanno alle due estremità della proposizione, la racchiudono tra loro; e questo conferiva loro in latino una speciale rilevanza. È una tecnica che Orazio utilizzò anche in altre poesie. Dal punto di vista dei precedenti filosofici, il tema della aequa mens era tipico dell’Epicureismo, anche se fu comune anche ad altre correnti filosofiche. Si tratta di un tema che assumeva per Orazio anche una speciale rilevanza personale. Già un commentatore antico, lo Psedo-Acrone, definì Orazio "melancholicus", termine che aveva un significato diverso dall’italiano “malinconico”. Per gli antichi la “melancholia” era una vera e propria malattia della psiche, caratterizzata da tetraggine e irritabilità. Orazio riprenderà il tema della aequa mens o aequus animus in una delle sue Epistole, la sua ultima raccolta di poesie. L’Epistola XI del I libro è dedicata ad un certo Bullatio, un personaggio che viaggiava senza sosta, come in preda all’inquietudine; Orazio lo invita a trovare in sé stesso la tranquillità dell’animo, perché girare il mondo non gli servirà a niente: cáelūm nṓn ănĭmū́m mūtā́nt quī trā́ns mărĕ cū́rrūnt. Strḗnŭă nṓs ēxḗrcĕt ĭnḗrtĭă … “chi corre per i mari cambia cielo, non stato d’animo. Un torpore smanioso ci fa soffrire …” “Strenua inertia”: Orazio impiega questo ossimoro per indicare una depressione carica di ansia. Eric Dodds, il grande studioso dei turbamenti che percorsero in mondo antico, tradusse con “maniaco-depressivo” il termine "melancholichus", che l’antico scoliasta aveva usato per Orazio. La sindrome bipolare provoca un’alternanza tra stati di esaltazione, nei quali il soggetto si sente chiamato a grandi imprese e in grado di superare ogni ostacolo, e stati di depressione, in cui ogni prospettiva favorevole gli appare preclusa. Nelle fasi negative del ciclo, il malato spesso cade in quella che sembra apatia, ma che per lui non è una situazione di distacco e di quiete, ma di angoscia e di sofferenza acuta; ed è per questo Orazio parla di strenua inertia. Non secus vuol dire “non diversamente”, “parimenti”. Notate l’espressione “moriture Delli”: moriture”, attributo del vocativo, ha funzione predicativa qui, cioè costituisce un enunciato; vuol dire: “che sei destinato a morire”, “che sei un mortale”. Esso regge le due proposizioni che iniziano con “seu”, cioè: “seu vixeris” e “seu bearis”. Entrambi questi verbi sono al futuro anteriore, perché si riferiscono a come Dellio avrà trascorso la vita, nel momento in cui dovrà morire: “se avrai vissuto triste per tutto il tempo” oppure “se ti sarai goduto il Falerno, ecc”. “Bearis” è una contrazione di “beaveris”, dal verbo “bēo, beāvi, beātum, beāre = “rallegrare, render beato”. Orazio ha enunciato l’alternativa che si pone a Dellio: passare mestamente il suo tempo oppure trascorrere i suoi giorni liberi in un luogo dove nessuno verrà a disturbarlo, godendosi i migliori vini della sua cantina. In questo modo ha introdotto il tema del convito, che occupa la parte centrale dell’ode. Anche qui, come nell’Inno all’anfora, si parla di un’anfora litterata, che recava una marca col nome del vino che conteneva, l’anno della vendemmia e quello in cui l’anfora era stata sigillata: questa è la "nota" di cui parla Orazio. Orazio precisa che è una "nota interiore", cioè un’etichetta che si trovava su un’anfora custodita nella parte più interna nella cantina, dove riposavano le anfore più vecchie, mentre quelle che si erano aggiunte in seguito si trovavano più vicine all’ingresso. Nell’espressione “per dies festos”, la preposizione per sembra suggerire anche l’idea di durata, dell’assaporare la vita in un angolo appartato, lontano da incombenze e da preoccupazioni. Il quadro ricorda quello evocato da Lucrezio nel proemio del II libro del De Rerum Natura. Vorrei citare alcuni dei suoi esametri, che Orazio ben conosceva: li vedrete comparire qui a fianco, per chiarezza. Agli uomini basta, diceva Lucrezio: cū́m tămĕn ī́ntēr sḗ || prōstrā́t͜i īn grā́mĭnĕ mṓllī prṓptĕr ăquáe rīvū́m || sūb rā́mīs ā́rbŏrĭs ā́ltae nṓn māgnī́s ŏpĭbū́s || iūcū́ndē cṓrpŏră cū́rānt, práesērtīm cū́m tēmpḗstās || ārrī́dĕt ĕt ā́nnī tḗmpŏră cṓnspērgū́nt || vĭrĭdā́ntīs flṓrĭbŭs hḗrbās. "quando, tra amici, distesi su un morbido prato, presso un ruscello, sotto i rami d’un alto albero, piacevolmente ristorano i corpi con poco specie quando il tempo sorride e la stagione cosparge di fiori le erbe verdeggianti." Nella strofa seguente Orazio elabora questo tema dell’angolo appartato in mezzo alla natura. Quō pī́nŭs ī́ngēns || ā́lbăquĕ pṓpŭlūs ūmbram ͜ hṓspĭtā́lēm || cōnsŏcĭā́re ͜ amānt rāmī́s? Quĭd ṓblīquṓ lăbṓrāt lŷ́mphă fŭgā́x trĕpĭdā́rĕ rī́vō? "A che scopo il grande pino e il pioppo argenteo amano unire nei rami l’ombra ospitale? E perché nel ruscello sinuoso l’acqua fuggitiva si affatica a saltellare?" Questa strofa è costituita, come vedete, da due domande retoriche. Esse non ricevano una risposta esplicita, ma implicita. La natura sa essere amica, ci dice Orazio; e ce lo dice riferendo agli alberi e all’acqua delle parole, che si usano di solito per creature animate: gli alberi “amano consociare” le loro chiome per farci ombra, mentre l’acqua “si affatica a saltellare” lungo le curve del ruscello, come per emanare meglio la sua frescura intorno. “Amant”, “consociare”, “laborat”, “trepidare” son tutti verbi che descrivono tipicamente azioni di creature animate, così come è adatto a una creatura animata l’aggettivo “fugax”. Questa rappresentazione di un angolo riposante della campagna nasceva da un amore sincero per la natura: essa ha poco a che fare con Archiloco, Alceo e gli altri esponenti della poesia greca arcaica; nasce da una civiltà letteraria di molto posteriore: la civiltà alessandrina, che era già urbana e che della natura aveva già la nostalgia. Notate la musicalità degli ultimi due versi: “Quĭd ṓblīquṓ lăbṓrāt / lŷ́mphă fŭgā́x trĕpĭdā́rĕ rī́vō?” Essi riecheggiano il mormorio del ruscello: iniziano lentamente nel terzo verso e poi accelerano con le sillabe brevi del quarto. Ma il loro effetto sta anche nel significato e nella posizione delle parole: “obliquo” e “laborat”, così accostate, si rafforzano a vicenda: cioè la fatica del procedere dell’acqua è evocata anche dal corso tortuoso del ruscello: questa fatica ci è comunicata anche dalla lentezza della dizione, perché queste due parole sono quasi completamente composte di sillabe lunghe. Ma poi vediamo l’acqua che scorre veloce e spumeggia; Orazio ce ne dà l’idea con i termini: “fugax” e “trepidare”, anch’essi accostati perché si rafforzino a vicenda; ed essi contengono molte sillabe brevi, che danno l’idea del movimento. Vedete come la quantità sillabica dava uno strumento in più alla poesia antica, consentendo di rafforzare con il ritmo della recitazione, più o meno veloce, le immagini evocate nell’ascoltatore dalle parole. Il più straordinario creatore di questi effetti fu forse Virgilio. La musicalità avvolgente di certi suoi versi ci aiuta spesso a sentire le sensazioni provate dai suoi personaggi. Virgilio usò sempre l’esametro dattilico catalettico, che è un metro duttile perché può contenere un numero molto diverso di sillabe, a seconda che siano lunghe o brevi. Quindi, per esempio, quando Virgilio nell’VIII libro dell’Eneide, vuole evocare l’irrompere di alcuni cavalli in un accampamento, usa un esametro in cui c’è il massimo numero possibile di sillabe brevi, creando l’effetto onomatopeico del calpestio: quā́drŭpĕdā́ntĕ pŭtrḗm || sŏnĭtū́ quătĭt ū́ngŭlă cā́mpūm. "gli zoccoli percuotono con suono quadruplice il molle suolo" E, per contro, quando, all’inizio del II libro dell’Eneide, Virgilio descrive il silenzio che cala tra i convitati che si accingono ad ascoltare il drammatico racconto di Enea, usa un esametro con diverse sillabe lunghe; e questo ci dà la sensazione del tempo che si ferma, in un’attesa non priva di tensione: Cōntĭcŭēre ͜ ōmnēs || īntēntīque͜ ōră tĕnēbānt. Tacquero tutti e tenevano gli sguardi attenti. Ma passiamo ora alla quarta strofa della nostra ode: Hūc vī́na ͜ ĕt ū́nguēnta ͜ ḗt nĭmĭū́m brĕvīs flōrḗs ămóenōs || fḗrrĕ iŭbḗ rŏsae, dūm rḗs ĕt áetās ḗt Sŏrṓrūm fī́lă trĭū́m pătĭū́ntŭr ā́tră. "Fa portare qui i vini e i profumi e i fiori della rosa dalla breve vita, finché l’età, il patrimonio e i neri fili delle tre sorelle lo consentiranno." Gli unguenti profumati ed i fiori erano ingredienti del convito antico, non meno del vino, come abbiamo visto in altre odi. Qui Orazio prepara con grande finezza il passaggio all’ultima parte dell’ode; lo fa menzionando la breve vita della rosa, fiore che i Romani associavano al convito, ma che anche un simbolo della caducità dell’esistenza. La nostra possibilità di passare lietamente la vita dipende da alcune cose, dice Orazio: una di queste è l’età ovviamente e poi dalla “res”, che qui è quasi certamente, al singolare, “il patrimonio”, e non, al plurale, “le circostanze”, come interpretarono alcuni. Ne sono sicuro, perché il concetto di patrimonio ricompare più avanti nell’ode; ma comunque il significato non cambierebbe di molto: si tratterebbe comunque delle circostanze materiali della vita. Le tre sorelle sono naturalmente le Parche: Clòto, Làchesi ed Atropo. Nelle loro mani passa il filo della vita di ogni mortale, finché Atropo non lo recide. Orazio menziona il colore nero di questo filo per evocare la morte. Da qui in poi passiamo nell’ultima parte della poesia, che è gnomica, come lo era la parte iniziale. Infine, attiro la vostra attenzione su una figura retorica che compare nel primo verso della strofa: Hūc vī́na ͜ ĕt ū́nguēnta ͜ ḗt nĭmĭū́m brĕvīs . Vedete che le parole vina e unguenta, entrambe terminanti in a e congiunte ad et mediante sinalefe, terminano allo stesso modo. Questo terminare allo stesso modo di parole vicine si chiama omoioteleuto (detto anche omeoteleuto o omoteleuto). Si differenzia dalla rima, perché nella rima le parole che terminano nello stesso modo sono poste alla fine del verso. Però si potrebbe anche dire che la rima è un caso particolare di omoioteleuto. Cēdḗs cŏḗmptīs || sā́ltĭbŭs ḗt dŏmō vīllā́quĕ, flā́vūs || quām Tĭbĕrī́s lăvīt, cēdḗs ĕt ḗxstrūctī́s ĭn ā́ltūm dī́vĭtĭī́s pŏtĭḗtŭr hḗrēs. "Dovrai lasciarli i pascoli che hai accumulato, e il palazzo e la villa, che il biondo Tevere lambisce, dovrai lasciarli, e le ricchezze ammassate a mucchi se le godrà l’erede." Qui Orazio passa a contemplare la cruda realtà. Il simposio è finito; siamo al momento terribile in cui bisognerà lasciare tutto. Cedes ripete Orazio, e l’anafora sottolinea brutalmente la necessità ineluttabile. “Coemptis saltibus” sono i pascoli accumulati con acquisti successivi e riuniti in un latifondo immenso, motivo di orgoglio per il proprietario terriero, ma testimonianza anche della sua avidità insaziabile. "Dovrai lasciarli", dice Orazio impietoso, così come il palazzo di città (domo) e la villa lambita dal Tevere; e le tue ricchezze, ammassate in alti mucchi (extructis in altum è un’altra immagine che evoca l’avidità senza senso che Orazio disapprovava), le tue ricchezze se le godrà l’erede. Queste dure parole ci ricordano l’Ode a Postumo, che avevamo visto nel video n° 7 di questa serie. Anche lì Orazio elencava quello ogni essere umano dovrà lasciare, quando morirà. Anche lì il concetto era ripetuto: Orazio usava dei gerundivi all’inizio dei versi, che cadevano come colpi di maglio sulle varie illusioni che impediscono all’uomo di guardare lucidamente alla precarietà dei suoi possessi. Anche nell’ode di oggi il concetto del patrimonio, degli averi accumulati, riveste un ruolo importante. È un concetto tipicamente romano, come quello del latifondo creato da Dellio, a cui si aggiungono la villa sul Tevere e il palazzo in città. Così come tipicamente romano era l’obbligo morale di trasmettere alle generazioni future il capitale intatto, usufruito ma non intaccato: un obbligo che rifletteva l’antico ordinamento gentilizio di Roma, che imponeva che la ricchezza restasse all’interno della stirpe. Ma Orazio era già conscio che l’individuo non è semplicemente un funzionario della propria stirpe. Avvertiva già quel che dolorosamente sappiamo noi moderni: che in fondo ogni individuo vive, e soprattutto muore, solo. Chi ha vissuto soltanto per ammassare ricchezze, chi ha amato troppo il possesso dei beni terreni, può vedere il pensiero dell’erede, che ne godrà al suo posto, ergersi alla fine come uno spettro funesto. E infatti anche questo tema si trovava nell’ode a Postumo. Nell’ultima strofa - se ricordate - Orazio evocava un erede che si dava alle gozzoviglie con i suoi amici, inondando il pavimento con i preziosi vini accumulati dal defunto: era un’immagine di grande potenza, che terminava l’ode con un crescendo d’angoscia tipico dell’incubo. Dīvḗsnĕ prī́scō || nā́tŭs ăb Ī́năchō nīl ī́ntĕrḗst ān || páupĕr ĕt ī́nfĭmā dē gḗntĕ sū́b dīvṓ mŏrḗrīs, vī́ctĭmă nī́l mĭsĕrā́ntĭs Ṓrcī. Non importa affatto se ricco discendente dell’antico Inaco o povero figlio d’infima gente ti attardi sotto il cielo, vittima destinata all’Orco impietoso. Attenzione alla costruzione di questa strofa, più libera di quello che sarebbe in italiano. Bisogna partire dalla proposizione principale che è “Nil interest”, cioè “non fa alcuna differenza che”, “non importa affatto se”. Ad essa segue una proposizione interrogativa indiretta disgiuntiva, in cui il primo membro è introdotto da ne e il secondo da an. Inaco (Ἴναχος in greco) era il mitico capostipite dei re di Argo: più antichi degli stessi re di Micene, per cui era praticamente impossibile immaginare un re più antico di Inaco, e quindi una discendenza più illustre. Notate che Orazio usa la forma contratta nil, invece che nihil, nel secondo e nel quarto verso: tecnicamente si tratta di una sinizèsi: cioè di un’unione di vocali contigue in un solo fonema. La h latina era solo una debole aspirazione, non contava come consonante; quindi era come se le due i di nihil fossero contigue e per sinizèsi diventano una sola. Se invece fossero state contigue due vocali diverse, il fenomeno della sinizèsi le avrebbe trasformate in un dittongo: per esempio deinde per de-inde, ecc. Nella metrica classica, la sinizèsi era uno degli strumenti che consentivano al poeta di far rientrare le parole nella struttura metrica della propria composizione, cioè adattarle al ritmo che aveva scelto di dare ai suoi versi. “Sub divo moreris” vuol dire “dimorerai sotto il cielo”. Sub divo era un modo di dire idiomatico, con cui i Romani menzionavano il dio per indicare la volta del cielo, che è il suo regno. Orazio usa questa espressione per accentuare la contrapposizione con il regno di Ade, citato alla fine della poesia e anche della strofa, il regno di Ade dove la vista del cielo sarà per sempre preclusa. L’Orco è un altro nome dell’Ade: “nil miserantis Orci” dice Orazio, cioè letteralmente “l’Orco che non ha pietà di nessuno”. È una definizione che richiama l’inlacrimabilem Plutona dell’Ode a Postumo. E infatti quest’ode si accosta molto a quella; l’Ode a Postumo è ancora più terrificante, gravida com’è di immagini da incubo. Ōmnḗs ĕṓdēm || cṓgĭmŭr, ṓmnĭūm vērsā́tŭr ū́rnā || sḗrĭŭs ṓcĭūs sōrs ḗxĭtū́ra ͜ ēt nṓs ĭn áeternum͜ ͜ ḗxĭlĭum ͜ ī́mpŏsĭtū́ră cū́mbae. "Tutti là saremo costretti; l’urna gira e presto o tardi la sorte di ognuno vien fuori e ci mette sulla barca che porta all’esilio eterno." Con le prime parole della strofa, in cui viene usata per la prima volta la prima persona plurale, Orazio di colpo include il lettore nel suo messaggio. L’ode si chiude con un vero colpo d’ala, ha osservato Antonio La Penna. Aggiungerei però che si tratta del culmine di un crescendo, come il colpo di scena finale di un film horror. È una strofa di grande concisione ed impatto, che la traduzione italiana non può rendere adeguatamente. Vediamola bene. “Omnes eodem cogimur”: eodem è un avverbio di moto a luogo; il verbo cogimur dà l’idea della violenza della morte, che strappa gli uomini dalle loro cose e che li ammassa come animali destinati al macello; Orazio aveva appena ricordato a Dellio che tutti siamo vittime destinate al sacrificio: non importa se ricchissimi, o di nobilissima stirpe. Le sortes erano dei pezzetti di legno o dei sassolini o dei cocci su cui veniva scritto un nome: si mettevano nell’urna e poi si estraevano. Ricordate che avevamo già trovato questa metafora delle sortes nella prima delle Odi Romane, che abbiamo visto nel video n° 11 di questa serie: “… áequā || lḗgĕ Nĕcḗssĭtās sōrtī́tŭr ī́nsīgnī́s ĕt ī́mōs, ṓmnĕ căpā́x mŏvĕt ū́rnă nṓmēn.” “Serius ocius” è un’espressione riferita ad exitura; è equivalente alle nostre espressioni: “presto o tardi” o “prima o poi”. Una piccola curiosità: quest’espressione è un asindeto (dal greco ἀσύνδετον, cioè “non legato”): è il nome della figura retorica, che indica quando due o più parti di una frase, aventi la stessa funzione sintattica, si succedono senza essere unite da una congiunzione; per esempio: “detto fatto”, “tanto peggio tanto meglio,” “nolens volens”, ecc. E serius ocius, oltre ad essere un asindeto, è naturalmente un omoioteleuto, come ho spiegato prima. Notate che il terzo verso (cioè l’enneasillabo) di questa strofa è congiunto al quarto (cioè il decasillabo) da sinalefe. La sinalefe è comune in Orazio, ma non si trova spesso tra due versi diversi. Accade pochissime volte, in componimenti che non abbiamo ancora analizzato. Quest’ode si conclude con quattro parole lunghe, di cui ben tre unite per sinalefe. Come sapete, la sinalefe è la pronuncia contratta in un’unica sillaba metrica della sillaba finale di una parola con la sillaba iniziale della parola seguente, senza che le vocali vengano assorbite o cadano. Essa ha l’effetto di eliminare la pausa tra due parole. Si trova spesso nella poesia latina, come anche in quella italiana; ma qui c’è addirittura una sequenza di sinalefi e la sinalefe unisce anche parole appartenenti a versi diversi, cioè alla sinalefe si unisce un altro fenomeno, denominato enjambement. Di cosa si tratta? Nella metrica sapete che ci sono due tipi di pause: una è la cesura. Essa si trova all’interno del verso e aveva grande importanza nella poesia latina e greca. L’altra è la cosiddetta “pausa metrica”, che si sente normalmente alla fine di ogni verso. Ebbene, si ha un enjambement quando questa pausa alla fine del verso viene – per così dire – scavalcata e tra i due versi si crea una continuità fonetica. Dobbiamo questo termine francese – così insolito nella metrica – a Nicolas Boileau, il grande scrittore, poeta e critico letterario francese del XVII secolo. Il Boileau la considerava un’anomalia, che il verso classico francese avrebbe dovuto respingere. Ma l’enjambement non è un difetto: è solo uno strumento in più nelle mani del poeta. Tra l’enneasillabo e il decasillabo finale di quest’ode Orazio utilizza insieme sinalefe ed enjambement. Perché lo fa? Perché, eliminando le pause tra le parole, Orazio ottiene un effetto musicale: la voce sale e scende secondo i tempi forti e deboli della metrica, ma non si ferma. L’effetto richiama l’ondeggiare di una piccola barca sull’acqua, mentre la presenza del suono “u” nelle parole usate da Orazio conferisce alla voce un colore scuro, come quello della notte in cui si addentra la barca. La musicalità della metrica e il significato dei versi si fondono mirabilmente nel finale dell’ode, evocando la barca che si addentra nell’Ade e creando quasi la sensazione di un tempo infinito. Ma rileggiamo la poesia di seguito per gustarne meglio la musicalità: Aequā́m mĕmḗntō || rḗbŭs ĭn ā́rdŭīs sērvā́rĕ mḗntēm, || nṓn sĕcŭs ī́n bŏnīs āb ī́nsŏlḗntī tḗmpĕrā́tām laetĭtĭā́, mŏrĭtū́rĕ Dḗllī, seu máestŭs ṓmnī || tḗmpŏrĕ vī́xĕrīs, seu te ͜ ī́n rĕmṓtō || grā́mĭnĕ pḗr dĭēs fēstṓs rĕclī́nātū́s bĕā́rīs ī́ntĕrĭṓrĕ nŏtā́ Fălḗrnī. Quō pī́nŭs ī́ngēns || ā́lbăquĕ pṓpŭlūs ūmbram ͜ hṓspĭtā́lēm || cōnsŏcĭā́re͜ ămānt rāmī́s ĕt ṓblīquṓ lăbṓrāt lŷ́mphă fŭgā́x trĕpĭdā́rĕ rī́vō? Hūc vī́na ͜ ĕt ū́nguēnta ͜ ḗt nĭmĭū́m brĕvīs flōrḗs ămóenōs || fḗrrĕ iŭbḗ rŏsae, dūm rḗs ĕt áetās ḗt Sŏrṓrūm fī́lă trĭū́m pătĭū́ntŭr ā́tră. Cēdḗs cŏḗmptīs || sā́ltĭbŭs ḗt dŏmō vīllā́quĕ, flā́vūs || quām Tĭbĕrī́slăvīt; cēdḗs ĕt ḗxstrūctī́s ĭn ā́ltūm dī́vĭtĭī́s pŏtĭḗtŭr hḗrēs. Dīvḗsnĕ prī́scō || nā́tŭs ăb Ī́năchō nīl ī́ntĕrḗst ān || páupĕr ĕt ī́nfĭmā dē gḗntĕ sū́b dīvṓ mŏrḗrīs, vī́ctĭmă nī́l mĭsĕrā́ntĭs Ṓrcī. Ōmnḗs ĕṓdēm || cṓgĭmŭr, ṓmnĭūm vērsā́tŭr ū́rnā || sḗrĭŭs ṓcĭūs sōrs ḗxĭtū́ra ͜ ēt nṓs ĭn áeternum͜ ͜ ḗxĭlĭum ͜ ī́mpŏsĭtū́ră cū́mbae. Ecco amici, vorrei provare a tirare brevissimamente le somme di quest’ode. Come avete sentito, nonostante il tema del convito, l’ode è molto diversa dall’inno all’anfora, che avevamo visto nel video scorso. Essa rappresenta – per certi versi - l’altra faccia della medaglia. Come dicevo, Orazio visse intensamente l’esperienza del convito. Lo considerava un rifugio, perché aveva un forte senso dell’amicizia e inoltre sentiva il piacere della compagnia delle persone intelligenti a lui affini. Era uomo sensibile, dotato di empatia e simpatia: sapeva stare con gli altri e trovarsi a proprio agio con loro: non importa se erano i villici delle sue campagne o i consiglieri dell’imperatore. Ma in questa poesia il convito non è uno strumento per socializzare, per far risplendere le sue non comuni doti di umorismo, tatto e perspicacia, quelle doti da cui Augusto era rimasto colpito e per le quali avrebbe voluto che Orazio ricoprisse la delicatissima posizione di proprio segretario addetto alla corrispondenza. No, in quest’ode il convito, o forse diremmo meglio il simposio, dato che il vino è al centro di esso, in quest’ode il convito è proprio l’opposto: è un modo per ritrarsi dall’ufficialità della vita pubblica, dai coinvolgimenti che la piena partecipazione al consorzio umano richiede. In quest’ode Orazio non fa un cenno ad altre persone che gustino insieme a Dellio il suo vino pregiato. L’aggettivo remotus usato per riferirsi al luogo in cui bere, forse un angolo del parco della lussuosa villa di Dellio sul Tevere, suggerisce il senso di un posto lontano dal consorzio umano, e dagli impegni di tempo e di energie che la vita di un personaggio importante imponeva. E allora cosa resta del vino, se non la sua capacità di portare oblio, la sua funzione diciamo “anestetica”, che così spesso emerge nella poesia di Orazio? Leggendo questi versi sentiamo che il vino prelibato della cantina di Dellio non serve ad avvicinarsi agli altri, ma a separarsene. È un ritrarsi dalla vita quello che paradossalmente Orazio propone; è già un prepararsi alla morte; la quale infatti fa il suo ingresso nel convito, in un crescendo, che termina con quella dura frase: “Omnes eodem cogimur” : “Saremo tutti costretti laggiù”, nel buio eterno dell’Ade. Si tratta di una poesia di grande tristezza, anzi di una poesia disperata, ma di una disperazione pacata e dignitosa, che ci sembra per questo anche più inevitabile. È come se Orazio, nonostante l’amicizia di Mecenate, nonostante l’apprezzamento di Augusto, nonostante l’orgoglio per il proprio valore di poeta, si aggrappasse al convito, o al vino come un naufrago si aggrappa a un relitto; come se si sentisse, almeno in certi momenti, come se si sentisse dentro di sé, come si sentisse ancora un superstite, uno scampato al naufragio di un’epoca intera. In nessun poeta del tempo avvertiamo, come in Orazio, che l’invito al vino e all’amore in certe altre odi, questo invito manifesta in realtà una ripulsa dell’ufficialità, quasi una demistificazione del trionfalismo della prima età imperiale. Per questo Luca Canali definì Orazio “il meno augusteo dei poeti dell’età augustea”; è una definizione che sembrerebbe paradossale per l’autore del "Carmen saeculare", e invece essa coglie le contraddizioni di questo poeta, che aveva amato in gioventù il mito di una Roma ormai scomparsa, che era stato amico di Bruto, aveva combattuto per lui a Filippi e aveva conosciuto il dolore di una disfatta definitiva ed irrimediabile. In una personalità sensibile, come quella di Orazio, la sconfitta dei propri ideali di gioventù provoca una ferita psicologica incancellabile, che di tanto in tanto riemergeva nelle sue poesie. Egli certo percepì che la sua generazione, che aveva amato, o almeno conosciuto bene quegli ideali, sarebbe stata presto sostituita da un’altra, la quale non ne aveva alcuna idea: una generazione di cortigiani, anche se in qualche caso di grande talento, come Ovidio. Come osservò Eduard Norden, con la morte di Virgilio nel 19 a.C. (che non a caso fu soprattutto il grande cantore degli sconfitti), con la morte di Virgilio si era praticamente chiusa un’epoca, era finito un mondo. Anche Orazio avvertì questa fine, pur con tutte le contraddizioni della sua complessa personalità. E a me questa poesia piace molto, nonostante la sua tristezza, per la sua dignità e concisione, per la sua tecnica perfetta, per la modernità e per l’autenticità dei sentimenti espressi. La trovo infine profondamente emblematica per la commistione di temi del mondo greco e di quello romano, in uno dei momenti storici e in uno degli autori, in cui questi due mondi più pienamente si congiunsero, fino a darci – in particolare con Orazio – quella che il grande filologo Ulrich von Wilamowitz definì: “un’unica letteratura mondiale bilingue”. Bene, amici, non mi resta che ringraziarvi per la vostra attenzione. Arrivederci! Alla prossima!