Il cane rimase in casa. Di lì a poco correva da ogni parte, divorando i fiocchi delle tende, i tappeti e le gambe dei mobili. Si riprese dalla sua agonia con grande rapidità e cominciò a crescere. Facendogli il bagno si seppe che era nero, con la testa quadrata, le zampe molto lunghe e il pelo raso. La nana suggerì di mozzargli la coda perché sembrasse un cane di razza, ma Clara fece un tale schiamazzo che degenerò in un attacco di asma e nessuno parlò più.
della faccenda. Barabas rimase con la coda intera che col tempo raggiunse la lunghezza di un bastone da golf, dotata di movimenti incontrollabili che spazzavano via le porcellane dai tavoli e rovesciavano i lumi. Era di razza sconosciuta, non aveva niente in comune con i cani che giravano vagabondi per la strada e tanto meno con le creature di pura razza che allevavano alcune famiglie aristocratiche. Il veterinario non seppe dire qual era la sua origine.
E Clara pensò che venisse dalla Cina perché la maggior parte del contenuto dei bagagli di suo zio era ricordi di quel lontano paese. Possedeva un'illimitata capacità di crescita. A sei mesi aveva le dimensioni di una pecora e a un anno le proporzioni di un puledro.
La famiglia disperata si chiedeva fino a che punto sarebbe cresciuto e cominciava a dubitare che fosse veramente un cane. Diceva che poteva trattarsi di un animale esotico catturato da un'esotica. dallo zio esploratore in qualche regione remota del mondo e che probabilmente allo stato naturale era feroce. Nivea ne osservava le unghie da coccodrillo e i denti affilati e il suo cuore di madre trasaliva al pensiero che la bestia avrebbe potuto strappare la testa a un adulto con un morso e a maggior ragione a qualunque dei suoi figli.
Invece Barrabas non mostrava alcuna ferocia. Aveva le affettuosità di un gattino. Dormiva abbracciato a Clara nel suo letto con la testa sul cuscino di piume e coperto fino al collo perché era freddoloso.
Ma in seguito, quando ormai non ci stava più nel letto, si stendeva sul pavimento dalla sua parte col muso da cavallo appoggiato sulla mano della bambina. Non lo si era mai sentito abbagliare o ringhiare. Era nero e silenzioso come una pantera. Gli piacevano il prosciutto e la frutta candita e ogni volta che c'erano visite... essi dimenticavano di rinchiuderlo, entrava silenziosamente nella sala da pranzo e girava intorno alla tavola, prelevando con delicatezza i suoi bocconi preferiti dai piatti, senza che nessuno dei commensali osasse impediglielo.
Nonostante la sua mansuetudine da donzella, Barrabas ispirava terrore. I fornitori fuggivano precipitosamente quando si affacciava in strada e una volta alla sua presenza provocò i p... panico tra le donne che facevano la fila davanti al carretto che distribuiva il latte spaventando il cavallo da tiro che si mise a correre imbizzarrito in mezzo a un fracasso di recipienti di latte sparsi sull'acciottolato severo dovette pagare tutti i danni e ordinò che il cane fosse legato in cortile ma clara ebbe un'altra delle sue convulsioni e la decisione fu rinviata a tempo indefinito la fantasia popolare e la mancata conoscenza della sua razza attribuirono a barrabas caratteristiche mitologiche raccontavano che continuava a crescere e che se la brutalità di un macellaio non avesse posto fine alla sua esistenza sarebbe arrivato ad avere le dimensioni di un cammello la gente lo credeva all'incrocio di un cane con una giumenta immaginava che potessero spontagli ali corna e respiro sul furio da drago come le bestie che rosa ricamava sulla sua interminabile tovaglia la nana stufa di raccogliere porcellane rotte e di sentire i pettegolezzi insinuanti secondo cui si trasformava in lupo nelle notti di luna piena, adottò con lui lo stesso sistema che aveva adottato col pappagallo, ma l'overdose di olio di fegato di merluzzo non lo uccise, gli provocò soltanto una caccarella di quattro giorni che lordò la casa da cima a fondo e che lei stessa dovette pulire.
Erano tempi difficili. Io avevo allora quasi venticinque anni, eppure mi sembrava di avere poco tempo davanti a me per costruirmi un futuro e avere la posizione cui ambivo. Lavoravo come una bestia e le poche volte che mi sedevo a riposare, costretto dal tedio di qualche domenica, sentivo che stavo perdendo momenti preziosi e che ogni minuto di ozio era un secolo di lontananza da Rosa. Vivevo alla miniera, in una baracca fatta di assi col tetto di zinco, che io stesso mi ero costruito. costruito con l'aiuto di un paio di manovali.
Era di una sola stanza in cui avevo sistemato le mie cose con una finestrina su ogni parete perché circolasse l'aria afosa del giorno, con imposte per chiuderle di notte quando soffiava il vento glaciale. Tutto il mio mobilio consisteva in una seggiola, una branda militare, un tavolo rustico, una macchina per scrivere e una pesante cassaforte che avevo dovuto far portare ad orso di mulo attraverso il deserto. nella quale custodivo le paghe dei minatori, alcuni documenti e un sacchetto di tela in cui brillavano piccole pepite d'oro che rappresentavano il frutto di tanti sforzi.
Non era comoda, ma io ero abituato alle scomodità. Non mi ero mai lavato con acqua calda e i ricordi che avevo della mia infanzia erano di freddo, solitudine e un eterno vuoto nello stomaco. In quel luogo mangiai, dormii e scrissi per due anni. Senz'altra distrazione se non qualche libro letto molte volte, un fascio di giornali vecchi, alcuni testi in inglese che mi servivano per imparare i primi rudimenti di quella magnifica lingua, e un cassetto chiuso a chiave dove conservavo la corrispondenza che intrattenevo con Rosa.
Mi ero abituato a scriverle a macchina con una copia che mettevo da parte per me e che conservavo in ordine di data insieme alle poche lettere che ricevevo da lei. Mangiavo lo stesso rancio. che veniva cucinato per i minatori e avevo proibito che circolassero alcolici nella miniera. E neppure ne avevo in casa mia, perché ho sempre pensato che la solitudine e la noia finiscono per trasformare l'uomo in un alcolizzato.
Forse il ricordo di mio padre, col colletto sbottonato, la cravatta allentata e sudicia, gli occhi torbidi e il fiato pesante, con un bicchiere in mano, ha fatto di me un astemio. Non sono uno fatto per bere. Mi ubriaco con facilità. L'ho scoperto a 17 anni e non l'ho mai dimenticato. Una volta mio nipote mi ha chiesto come ho potuto vivere così a lungo da solo e tanto lontano dalla civiltà.
Non lo so, ma in verità deve essere stato più facile per me che per altri, perché non sono una persona socievole. Non ho molti amici, non mi piacciono le feste o la confusione, al contrario, sto meglio da solo. Faccio molta fatica a prendere confidenza con la gente.
in quell'epoca non avevo ancora vissuto con una donna sicché non potevo nemmeno sentire la mancanza di quello che non conoscevo non avevo gli amori facili non li ho mai avuti sono fedele di natura nonostante mi basti l'ombra di un braccio la curva la curva della vita la piega di un ginocchio femminile per farmi venire in testa certe idee anche oggi che sono così vecchio che guardandomi allo specchio non mi riconosco sembro un albero contorto No, non cerco di giustificare i miei peccati di gioventù con la storia che non potevo controllare l'impeto dei miei desideri e via dicendo. A quell'età ero abituata ai rapporti senza futuro, con donne leggere, dato che non avevo possibilità di averne con altre. Nella mia generazione facevamo una distinzione tra le donne per bene e le altre, e inoltre dividevamo le donne per bene tra le nostre e quelle degli altri.
Non avevo mai pensato all'amore prima di conoscere Rosa. e il romanticismo mi sembrava pericoloso e inutile e se talvolta mi era piaciuta qualche ragazzina non avevo mai osato avvicinarmi a lei per timore di essere respinto e del ridicolo. Sono sempre stato orgoglioso e a causa del mio orgoglio ho sofferto più degli altri.
È passato più di mezzo secolo ma ancora ho impresso nella memoria il momento preciso in cui Rosa, la bella, entrò nella mia vita. Come un angelo distratto che passando mi rubò l'anima camminava con la nana e un'altra creatura probabilmente una sorella minore credo che indossasse un vestito lilla ma non ne sono sicuro perché non ho l'occhio per gli abiti da donna e perché era così bella che se anche avessi avuto addosso una cappa di armellino avrei potuto guardare solo il suo volto normalmente non casco ai piedi delle donne ma avrei dovuto essere un cretino per non notare quell'apparizione che passando provocava un tumulto e rallentava il traffico con quell'incredibile capigliatura verde che le incorniciava il volto come un cappello fantastico il suo incedere da fata e quella maniera di muoversi come se stesse volando mi passò davanti senza vedermi ed entrò ondeggiando nella pasticceria della plaza de armas rimasi in strada stupefatto mentre lei comprava caramelle all'anice scegliendole a una a una con la sua risata squillante come un sonaglio mettendosene una in bocca e dandone un'altra alla sorella non fui l'unico a essere ipnotizzato in pochi si era formato un capannello di uomini che sbirciavano attraverso la vetrina. Allora reagì.
Non mi passò nemmeno per la testa che ero molto lontano dall'essere il pretendente ideale per quella giovane e celestiale, dato che non avevo mezzi, ero tutt'altro che un bel ragazzo e avevo davanti a me un futuro incerto. E nemmeno la conoscevo. Ma ero abbagliato e decisi proprio in quel momento che era l'unica donna degna di essere la mia sposa e che se non avessi potuto tenerla avrei preferito il celibato le andai dietro per tutto il tragitto di ritorno a casa salii sullo stesso tram e mi sedetti dietro di lei senza poter distogliere lo sguardo dalla sua nuca perfetta dal suo collo tondo dalle sue spalle tenere accarezzate dai riccioli verdi che le sfuggivano dall'acconciatura non sentivo le scosse del tram perché mi muovevo come in un sogno improvvisamente scivolò nel corridoio e passandomi accanto le sue stupefacenti pupille d'oro si fermarono un istante nelle mie per un attimo fui come morto non potevo respirare e il battito del cuore si arrestò quando recuperai la padronanza di me stesso dovetti balzare sul marciapiedi a rischio di rompermi qualche osso e correre in direzione della strada che lei aveva preso indovinai dove abitava quando scorsi una macchia color lilla che svaniva dentro un portone da quel giorno montai la guardia davanti a casa sua passeggiando lungo l'isolato come un cane al randaggio spiando facendo mio amico il giardiniere facendo parlare alle donne di servizio finché non riuscì a parlare con la nana e lei santa donna ebbe compassione di me e accettò di farle pervenire i biglietti d'amore i fiori le innumerevoli scatole di caramelle all'anice con cui cercavo di conquistare il suo cuore le mandavo anche degli acrostici non so scrivere versi ma c'era un libraio spagnolo che era un genio in fatto di rima al quale ordinavo di comporre poesie canzoni qualsiasi cosa la cui materia prima fosse inchiostro e carta mia sorella ferula mi aiutò ad avvicinarmi alla famiglia delvaie scoprendo remote parentele tra i nostri cognomi e cercando occasioni per salutarci all'uscita dalla messa fu così che riuscì ad andare a far visita a rosa il giorno che entrai in casa sua e lebi a portata della mia voce non mi venne in mente nulla da dirle rimasi muto col cappello in mano e la bocca aperta finché i suoi genitori che ne conoscevano quei sintomi non mi tolsero d'impiccio non so cosa avesse potuto vedere rosa in me e neppure perché col tempo mi accettò come sposo riuscì a essere suo fidanzato ufficiale senza compiere alcuna prodezza sopranaturale perché nonostante la sua bellezza sovrumana e le sue innumerevoli virtù rosa Non aveva pretendenti.
Sua madre mi fornì la spiegazione. Disse che nessun uomo si sentiva abbastanza forte da passare la vita a difendere Rosa dalle bramosie degli altri. Molti le avevano gironzolato intorno, perdendo la ragione per lei, ma finché io non ero apparso all'orizzonte, nessuno si era ancora deciso.
La sua bellezza intimoriva, per questo l'ammiravano da lontano senza avvicinarsi. Io non ci avevo mai pensato a dire il vero. Il mio problema era che non avevo un soldo, ma mi sentivo capace, per la forza dell'amore, di trasformarmi in un uomo ricco. Mi guardai intorno cercando una strada veloce entro i limiti dell'onestà in cui ero stato educato, e vidi che per riuscire avevo bisogno di protettori, di studi speciali o di un capitale. Non era sufficiente avere un nome rispettabile.
Credo che, se avessi avuto denaro per cominciare, Avrei giocato alle carte o scommesso sui cavalli, ma poiché questo non era il mio caso, dovetti pensare a lavorare in qualcosa che, seppure rischiosa, avrebbe potuto farmi fare fortuna. Le miniere d'oro ed argento erano la fortuna degli avventurieri. Potevano farli sprofondare nella miseria, ammazzarli di tubercolosi o trasformarli in uomini potenti. Era questione di fortuna. Ottenni la concessione di una miniera nel nord, con l'aiuto del prestigio del cognome di mia madre, che servì.
affinché la banca mi concedesse un prestito feci il fermo proposito di cavarne fino all'ultimo grammo del prezioso metallo anche se avessi dovuto spremere la montagna con le mie stesse mani e triturare le rocce appedate per rosa ero disposto a questo e a molto di più alla fine dell'autunno quando la famiglia si era tranquillizzata circa le intenzioni di padre restrepo il quale dovette placare la sua vocazione di inquisitore dopo che il vescovo in persona lo ebbe diffidato a lasciare in pace la piccola Clara del Valle. E quando tutti si erano rassegnati all'idea che lo zio Marco si era realmente morto, cominciarono a definirsi piani politici di Severo. Per anni aveva lavorato a questo fine. Per lui fu un trionfo allorché lo invitarono a presentarsi come candidato del Partito Liberale alle elezioni parlamentari, in rappresentanza di una provincia del sud dove non era mai stato e che nemmeno avrebbe potuto individuare con facilità su una mappa.
Il partito aveva molto bisogno di gente e Severo Era ansiosissimo di occupare un seggio al congresso, sicché non ebbero molte difficoltà a convincere gli umili elettori del sud a nominare severo loro candidato. L'invito fu accompagnato da un maiale arrostito, rosio e monumentale che venne inviato dagli elettori a casa della famiglia del Valle. Era stato messo sopra un grande vassoio di legno profumato e lustro con un po'di prezzemolo sul grugno, una carota nel culo disteso su un letto di pomodori. Aveva una grossa cucitura nella pancia e dentro era ripieno di pernici che a loro volta erano ripiene di prugne. Arrivò accompagnato da un orciolo che conteneva mezzo gallone della migliore grappa del paese.
L'idea di diventare deputato, o meglio ancora senatore, era un sogno lungamente blandito da Severo. Aveva continuato a condurre le cose fino a quella meta con un minuzioso lavoro di contatti, di amicizie, di conciliaboli, di... pubbliche apparizioni discrete ma efficaci di denaro e di favori che faceva alle persone giuste nel momento giusto.
Quella provincia del sud, sebbene remota e sconosciuta, era quanto stava aspettando. La faccenda del maiale avvenne di martedì e il venerdì, quando già del maiale rimanevano solo la pelle e le ossa che Barrabas rosicchiava in cortile, Clara annunciò che ci sarebbe stato un altro morto in casa. Ma sarà un morto per sbaglio, disse.
Il sabato ebbe una brutta notte e si svegliò gridando. La nana le diede un infuso di tiglio e nessuno le badò più perché tutti erano presi dai preparativi per il viaggio del padre al sud. E perché la bella Rosa si era svegliata con la febbre.
Nivea aveva ordinato che lasciassero Rosa a letto e il dottor Cuevas aveva detto che non era nulla di grave, che le dessero una limonata tiepida ben zuccherata con uno schizzo di liquore perché si facesse una bella sudata. Se è vero, Andò a trovare la figlia e la trovò arrossata e con gli occhi lucidi, immersa nei pizzicolor burro delle sue lenzuola. Le portò in regalo un carnet da ballo e autorizzò la nana ad aprire l'orciolo della grappa e a mettergliene un po'nella limonata. Rosa beve la limonata, si avvolse nello sciale di lana e immediatamente si addormentò vicino a Clara, con la quale divideva la camera da letto.
La mattina della tragica domenica la nana si alzò presto come sempre. Prima di andare a messa andò in cucina a preparare la colazione per la famiglia. La stufa a legna e a carbone era stata preparata fin dal giorno prima e lei accese il fuoco con i residui della brace ancora caldi.
Mentre scaldava l'acqua e faceva bollire il latte, si mise a sistemare i piatti per portarli in sala da pranzo. Cominciò a cuocere l'avena, a filtrare il caffè, a tostare il pane. Sistemò i vassoi, uno per Nivea che faceva sempre colazione a letto.
e un altro per rosa che in quanto malata aveva lo stesso diritto coprì il vassoio di rosa con un tovagliolo di lino ricamato dalle suore affinché non si raffreddasse il caffè e non vi entrassero mosche e si affacciò sul cortile per vedere che barrabas non fosse l'intorno aveva la mania di saltarle addosso quando passava con la colazione lo vide distratto intento a giocare con una gallina e ne approfittò per iniziare il suo lungo viaggio attraverso cortili e corridoi dalla cucina verso il fondo della casa fino alla stanza delle bambine all'altra estremità. Davanti alla porta di Rosa esitò colpita dalla forza del presentimento. Entrò senza bussare all'uscio come era sua abitudine.
In quel momento si accorse che c'era profumo di rose nonostante non fosse l'epoca di quei fiori. Allora la nana seppe che era accaduta una disgrazia irreparabile. Depose con attenzione il vassoio sul tavolino da notte. e camminò lentamente fino alla finestra.
Aprì le pesanti tende e il palido sole del mattino entrò nella stanza. si volse angosciata e non si sorprese vedendo sul letto rosa morta più bella che mai con i capelli decisamente verdi la pelle color del marmo nuovo e i suoi occhi gialli come il miele aperti ai piedi del letto c'era la piccola clara che osservava sua sorella la nana s'inginocchiò accanto al letto prese la mano di rosa e cominciò a pregare e continuò a pregare finché non si udì in tutta la casa un terribile lamento di nave dispersa. Fu la prima e l'ultima volta che Barrabas cacciò fuori la voce.
Ululò alla morta tutto il giorno fino a distruggere i nervi agli abitanti della casa e ai vicini che accorsero attirati da quel gemito di naufragio. Al dottor Cuevas bastò gettare uno sguardo al corpo di Rosa per sapere che la morte era dovuta a qualcosa di molto più grave che una banale febbre. Cominciò a fiutare da ogni parte, ispezionò la cucina, passò le dita nelle casseruole, aprì i sacchi di farina, quelli dello zucchero, le scatole della frutta secca, buttò all'aria tutto e si lasciò dietro un disastro d'auragano.
Frugò nei cassetti di rosa, interrogò i servitori a uno a uno, vessò la nana finché non la fece uscire dai gangheri e al termine delle sue indagini lo condussero all'orciolo di grappa che requisì senza tanti riguardi. Non comunicò a nessuno i suoi dubbi. Ma si portò il recipiente nel laboratorio e tre ore dopo era di ritorno con un'espressione di orrore che trasformava il suo rubicondo viso da fauno in una maschera pallida, che non lo abbandonò durante tutta quella terribile faccenda.
Si diresse verso Severo, lo prese per un braccio e lo tirò da parte. «In questa grappa c'era veleno sufficiente per avvelenare un toro! » gli disse a labbra strette. «Ma per essere sicuro del fatto che sia stato questo a uccidere la ragazza...» «Devo fare un'autopsia.» «Intende dire che l'aprirà?
» gemette Severo. «Non completamente, la testa non la toccherò, solo il sistema digestivo.» spiegò il dottor Cuevas. A Severo venne la nausea. A quell'ora Nive era sfinita dal pianto, ma quando venne a sapere che pensavano di portare sua figlia all'obitorio, recuperò di colpo l'energia. Si calmò solamente col giuramento che avrebbero portato Rosa direttamente dalla casa al cimitero cattolico.
Allora accettò di bere il laudano che le aveva prescritto il medico e dormì per venti ore. All'imbrunire, Severo dispose i preparativi, mandò a letto i suoi figli e autorizzò la servitù a ritirarsi presto. A Clara, che era troppo impressionata per via dell'accaduto, concesse di passare la notte nella stanza di un'altra sorella.
Dopo che tutte le luci furono spente e la casa si acquietò, giunse l'aiutante del dottor Cuevas. Un giovane allampanato e miope che quando parlava balbettava, aiutarono Severo a trasportare il corpo di Rosa in cucina e lo adagiarono con delicatezza sul marmo dove la nana impastava il pane e tritava le verdure. Nonostante la sua forza di carattere, Severo non poté sopportare il momento in cui tolsero la camicia da notte a sua figlia e apparve la sua splendida nudità da sirena.
Uscì barcollante, ubriaco di dolore e stramazzò nel salotto piangendo come un bambino. anche il dottor cuevas che aveva visto nascere rosa e la conosceva come il palmo della sua mano ebbe un sorbalzo nel vederla senza niente addosso il giovane aiutante da parte sua cominciò ad ansimare per l'impressione e continuò ad ansimare negli anni seguenti ogni volta che ricordava lo spettacolo incredibile di rosa che dormiva nuda sopra la tavola della cucina con i suoi lunghi capelli che cadevano fino a terra come una cascata vegetale mentre lavoravano alla loro terribile incombenza la nana stufa di piangere e di pregare e col presentimento che qualcosa di strano stava succedendo nei suoi territori del terzo cortile si alzò si avvolse in uno scialle e si mise a girare per la casa vide luce nella cucina ma la porta e le imposte della finestra erano chiuse proseguì lungo i corridoi silenziosi e gelidi attraversando i tre blocchi della casa fino ad arrivare nel salotto attraverso la porta socchiusa intravide il suo padrone che passeggiava per la stanza con aria desolata. Il fuoco del caminetto si era spento.
La nana entrò. Dov'è la piccola rosa? chiese.
Il dottor Cuevas è con lei, nana. Resta qui e bevi un sorso con me, supplicò Severo. La nana rimase in piedi con le braccia incrociate che le stringevano lo scialle al petto. Severo le indicò il divano e lei si avvicinò con timidezza.
Si sedette a suo fianco. Era la prima volta che stava così vicino al padrone da quando viveva in quella casa. Severo versò un bicchiere di jerez a testa e beve il suo d'un sorso.
Affondò la testa tra le dita strappandosi i capelli e masticando tra i denti un'incomprensibile e triste litania. la nana che stava rigidamente seduta sull'orlo della seggiola vedendolo piangere si rilassò allungò la mano ruvida e con un gesto automatico gli lisciò i capelli con la stessa carezza che in vent'anni aveva usato per consolargli i figli lui alzò la testa e osservò la faccia senza età gli zigomi indigeni la crocchia nera l'ampio grembo dove aveva visto piagnucolare e dormire tutti i suoi discendenti e le figlie e sentì che quella donna calda e generosa come la terra poteva consolarlo appoggiò la fronte sulla sua gonna aspirò il tenero odore del suo grembiule inamidato e proruppe in singhiozzi come un bambino versando tutte le lacrime che aveva trattenuto nella sua vita di uomo la nana gli grattò la schiena gli diede colpetti consolatori con la mano gli parlò con quel linguaggio dimezzato che usava per addormentare i bambini e gli cantò in un sussurro le sue ballate campagnole finché non riuscì a tranquillizzarlo. Rimasero seduti molto vicini, bevendo jerez, piangendo a intervalli, ricordando i tempi felici in cui Rosa correva nel giardino per acchiappare farfalle con la sua bellezza da mare profondo.
In cucina, il dottor Cuevas e il suo aiutante prepararono i loro sinistri strumenti e le loro bottiglie fetide, si misero grembiuli di tela cerata, si rimboccarono le maniche e iniziarono a frugare nell'interno della bella Rosa fino a provare senza lasciar adito a dubbi che la giovane aveva ingerito una dose superlativa di veleno per topi. Era destinato a Severo, concluse il dottore lavandosi le mani nel lavandino. L'aiutante, troppo emozionato dalla bellezza della morta, non si rassegnava a vederla cucita come un sacco e suggerì di sistemarla un poco.
Allora entrambi si dedicarono al compito di preservare il corpo con unguenti e di riempirlo con impiastri da imbalsamatori. Lavorarono fino alle quattro del mattino, ora in cui il dottor Cuevas si diede per vinto dalla stanchezza e dalla tristezza e uscì. Nella cucina Rosa rimase in mano all'aiutante che la lavò con una spugna togliendole le macchie di sangue.
Le mise addosso la sua camicia ricamata per nascondere la cucitura che le andava dalla gola al sesso e le riordinò i capelli. Dopo ripulì le tracce del suo lavoro. Il dottor Cuevas trovò nel salotto Severo in compagnia della nana ebbre di pianto e di jerez.
«È pronta? » disse. «Andiamo a sistemarla un po'perché sua madre possa vederla».
Spiegò a Severo che i suoi sospetti erano fondati e che nello stomaco di sua figlia aveva trovato la stessa sostanza mortale che c'era nella grappa regalata. Allora Severo si ricordò della predizione di Clara e perdette l'ultimo ritegno che gli restava, incapace di rassegnarsi all'idea che sua figlia era morta al posto suo. Crollò, gemendo che era lui il colpevole, per la sua ambizione e le sue fanfaronate, che nessuno gliel'aveva detto di mettersi in politica, che stava molto meglio quando era un semplice avvocato e padre di famiglia, che rinunciava da quell'istante e per sempre alla maledetta candidatura al Partito Liberale, ai suoi fasti e alle sue opere, che sperava che nessuno dei suoi discendenti si sarebbe più mescolato con la politica, che quello era un affare da macellai e da banditi.
finché il dottor Cuevas non si commosse e finì di ubriacarlo. Lo Jerez fu più forte della pena e della colpa. La nana e il dottore se lo portarono traballante nella sua camera, lo spogliarono e lo infilarono nel letto.
Poi andarono in cucina, dove l'aiutante stava terminando di sistemare Rosa.