Una brutta fine. C'erano una volta gli indiani d'America. Gli Apache, i Siu, i Lakota, tribù di guerrieri, cacciatori e sciamani. Oggi non parliamo degli indiani canadesi, per quello ci faremo un video a parte, chissà se non un vero e proprio reportage. Il problema è finanziarlo.
Ma tempo al tempo. Oggi parliamo degli indiani negli States. Ed è inutile girarci attorno.
Quello che oggi pensiamo di sapere sulle ancestrali tribù nativo-americane che sia tutto falso, ovvero in minima parte. Lo dobbiamo soprattutto al cinema. Cinema d'arte che paradossalmente è la forma d'arte privilegiata di chi gli indiani d'America li ha combattuti e infine sconfitti.
E che come ogni singola forma d'arte si piega a certe narrazioni spesso soltanto per propaganda, legittimazione nazionale o anche atto di accusa. Magari qualcuno di voi già presente negli anni 70 si ricorderà di questa testimonianza incredibile, quella di piccola piuma alla cerimonia degli Oscar del 73. Mettendo da parte i boo del pubblico è evidente la deriva semplicistica che ci si è fatti dei nativi americani. Basti pensare alla facilità con cui negli ultimi due secoli siamo passati dal mito del buon selvaggio all'immaginario del selvaggio e basta. Violento e bestiale, per poi tornare a riabbracciare una rappresentazione del nativo americano più conciliante.
E fa niente se, ad esempio, due film precursori di quest'ultima tendenza, come Soldato blu e Piccolo grande uomo, entrambi nel 1970, siano stati girati forse con lo sguardo più rivolto verso il lontano Vietnam. In poche parole, e semplifico anch'io, finché gli statunitensi ci vanno bene, l'unico indiano buono è un indiano morto. Quando invece gli statunitensi non ci vanno più a genio, grosso modo dal Vietnam in poi, eccoci tutti in processione. La realtà storica è certo più complessa e non voglio parlarne in questo video. Basti sapere che lo stesso governo federale statunitense, nella seconda metà dell'Ottocento, affrontò la questione indiana consapevole delle proprie contraddizioni e ipocrisie.
Ma come? Noi statunitensi che abbiamo fondato la patria della libertà, svincolandoci dal gioco delle vetuste tirannie europee, che abbiamo addirittura detto no alla schiavitù, ci troviamo oggi a sterminare un popolo e a scacciarlo dalle proprie terre? Però è anche vero che siamo in missione per conto di Dio e che di quelle terre a ovest ne abbiamo bisogno. Quindi...
Quindi è andata come è andata, non possiamo più farci niente, ma ciò non toglie che ci siano state delle conseguenze che qualcuno sta pagando ancora oggi. E indoviniamo chi? Partiamo da un concetto che sa di beffa.
Indian Reservation, le riserve indiane, che per la cronaca si chiamano così perché durante i trattati tra nativi e governo federale erano le tribù a cedere formalmente le loro terre, tenendosi per sé, riservandosi, appunto, un esiguo territorio dove vivere indisturbati. Contraddizioni e epocrisie, si diceva. Probabilmente distinto, ci potremmo immaginare le riserve indiane come oasi di pace, come sterminate praterie dove i discendenti dei roici indiani cavalcano ininterrottamente e vanno a caccia, indossano ancora i copricapi di piume. In altre parole, un parco nazionalistico, nonché attrazione turistica. Ecco, non funziona sempre così.
Secondo il bureau of Indian Affairs, ad oggi si contano 326 riserve. Già qui abbiamo un problema. Perché lo stesso bureau conta cinque 574 tribù riconosciute dal governo federale, il che significa che non tutte hanno a disposizione una propria riserva.
Tra tutte le leggi, gli espropri, le parziali restituzioni, le riserve oggi conservano solo il degli antichi possedimenti indiani. Per di più, la distribuzione di esse non è proprio la più ottimale. Il 93% di questi territori oggi sorge in 11 stati a ovest del Mississippi, mentre soltanto il 3% a est.
Il resto è sparso qua e là, ma alla fine più di metà degli stati non ha una riserva al suo interno. Ovviamente questi territori sono quelli che i coloni non hanno voluto. Scarsità di risorse e infrastrutture, nonché lontananza dai centri urbani.
La maggior parte di queste riserve, quasi i due terzi, sono poi molto ridotte. coprono circa un'area di neanche 50 miglia quadrate, circa 130 km quadrati, mentre soltanto il 7% di questi territori raggiunge un'ampiezza di 1000 miglia quadrate, 2500 km quadrati. Queste 19 riserve da sole coprono il 74% di tutto il territorio indiano.
Poi c'è la riserva più grande, Quella dei Navajo, tra New Mexico, Arizona e Utah, che vanta ben 24.000 miglia quadrate. Come vedremo, questa redistribuzione è forse l'ultimo dei problemi per i discendenti dei nativi, che oggi come oggi devono fare i conti con i furenti spiriti del capitalismo. Povertà, disoccupazione, tossicodipendenza, alcolismo, per citarne solo alcuni. In parole povere, prendete tutti i problemi delle province più profonde e degradate degli Stati Uniti e amplificateli ulteriormente. Ma come si è arrivati a questa estrema mortificazione?
di quella che secoli fa era una virtuosa nazione. Mi riferisco alla nazione indiana, per chi non l'avesse capito. Tanto per intenderci, quando oggi parliamo di riserve indiane, parliamo pur sempre di lande a volte letteralmente desolate, dove ad esempio il tasso di suicidi giovanili è di due volte e mezzo superiore alla media nazionale. Ma a tutti i problemi che oggi affliggono la comunità indiana, ci arriveremo. Prima, vediamo come siamo arrivati...
A questo punto, innanzitutto bisogna sempre tener conto che lo scopo principale delle riserve indiane era quello di tenere sotto il controllo statunitense le tribù native per evitare possibili conflitti con le comunità di coloni che andavano a insediarsi nel lontano West. Già dal 1700... ci furono i primi accordi e trattati tra il neonato governo statunitense e i nativi americani per il controllo e la suddivisione delle terre, ma è nel secolo successivo che vennero poste le basi per la creazione delle riserve così come noi oggi le conosciamo.
Nel 1830 il presidente Andrew Jackson mette la firma su una legge contestatissima al congresso, l'Indian Removal Act. La legge formalmente autorizzava la rilocazione su base volontaria delle cosiddette cinque tribù civilizzate, ormai abbondantemente occidentalizzate, nei territori a est del fiume Mississippi, in una zona compresa tra gli attuali stati del Kansas, Arkansas e Oklahoma, territori suddivisi ad hoc proprio per rimuovere le tribù dei Chicaso, Choctaw, Creek, Cherokee e Seminole dalle loro terre negli Stati Uniti. gli state del sud.
Furono soprattutto i coloni della Georgia a richiedere a gran voce provvedimenti contro la presenza dei Cherokee e dei Creek nelle zone che intendevano abitare. Questa rilocazione volontaria nei fatti diventò una rimozione forzata, un vero e proprio esodo. Per la cronaca, i Choctaw firmarono subito e se ne andarono volontariamente in quello che oggi è l'Arkansas. I semi nord della Florida si ribellarono, ci fu sì una breve guerra, ma vennero sconfitti e costretti a levare le tende.
I Chicas soffercero il gioco dei bianchi e chiesero in cambio un corrispettivo in 3 milioni di dollari, che gli statunitensi sborseranno soltanto decenni più tardi. I Creek avevano già perso... molto del loro territorio e firmare questo accordo perlomeno garantiva loro una terra. I Cherokee si ritenevano una nazione indipendente e non soggetta alle leggi statunitensi, ma una fazione minoritaria firmò comunque l'accordo.
I capi Cherokee si opposero, ma alla fine furono costretti a migrare verso ovest. Su 17.000 Cherokee in marcia, almeno 4.000, se non 8.000, morirono in quello che è passato alla storia come il cammino delle lacrime. Vent'anni più tardi, nel 1851, i coloni si erano mossi ancora più a ovest, penetrando nei territori indiani.
Il governo federale addirittura stanziò i fondi per facilitare la rilocazione delle tribù in territori atti all'agricoltura, ma in fin dei conti l'intero piano mirava a tenere sotto controllo le tribù e permettere ai coloni bianchi di impossessarsi delle loro terre. Ovviamente non tutte le tribù firmarono ed è questo il periodo delle guerre indiane, anche se alla fine il governo federale riuscì con la forza a rilocare gran parte dei nativi. Anche se fu loro permesso di formare i propri consigli tribali e altre forme di governo autonomo, per molte tribù divenne quasi impossibile conservare le proprie abitudini e tradizioni all'interno dei nuovi territori. I cacciatori dovevano reinventarsi agricoltori, i gruppi rivali si trovarono a contendersi le stesse terre e in più le malattie portate dai bianchi si diffusero a ancora più velocemente. La situazione peggiorò sotto la presidenza Grant che nel 1868, dietro alla promessa di una politica di pace volta a contenere la violenza tra coloni e indiani, mirava ad un'assimilazione totale delle tribù, convertendole al cristianesimo e imponendo costumi occidentali.
Per di più l'istituzione delle riserve divenne operazione ancora più immediata, così come immediata era la risposta dell'esercito in caso di sconfinamento di nativi al di fuori delle stesse riserve. Però i coloni stessi erano i primi a violare i confini delle riserve, cacciavano la selvaggina necessaria al sostentamento della tribù e, come nelle Black Hills, andavano a caccia di oro. In altre parole veniva meno lo scopo principale delle riserve, che per di più iniziarono ad essere percepite come un'esercito di sconfinamento. come un problema, un ostacolo alla perfetta assimilazione dei nativi, visto che si reggevano ancora sull'ordinamento tribale. Nel 1887 un'altra legge, il Dose Act, tentò quindi di spazzare via ogni rimasuglio della cultura nativa e con esso il sistema stesso delle riserve.
E cosa si inventarono stavolta? A questo giro niente cristianesimo, tranquilli. Se vogliamo rendere i nativi dei perfetti americani, è tempo che imparino a ragionare da perfetti americani.
Basta coesione tribale, connessioni spirituali e condivisione della terra. Proprietà privata, signori, individualismo sfrenato e ci guadagneremo di più. La nuova legge promuoveva la libertà di promulgata dal presidente Cleveland, in sostanza, non faceva altro che confiscare di nuovo i territori delle riserve e ridistribuirli, ma questa volta assegnandoli non più alle tribù ma ai singoli individui e famiglie.
Così facendo veniva meno il senso di collettività tribale su cui si reggeva non soltanto il governo autonomo delle riserve, ma il senso stesso della cultura nativa. Cultura che però a partire dagli anni 80 e dell'800 divenne non a caso una delle tematiche principali del circo itinerante del celebre Buffalo Bill. Tra le attrazioni con Apparivano tra l'altro dei veri nativi, tra cui il leggendario Toro Seduto.
Uno dei suoi numeri principali consisteva semplicemente nel rivolgere al pubblico un discorso nella sua lingua natia, ovviamente sconosciuta ai bianchi, che non capivano una benemata mazza, eppure applaudivano allo sfoggio di esotismo. Secondo la leggenda, però, Toro Seduto avrebbe riempito quei discorsi di insulti e maledizioni rivolti all'ignaro pubblico statunitense. Questo ora noi non lo possiamo sapere, ma se per caso voleste evitare di commettere...
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Per di più, la riorganizzazione della terra su base individuale liberava gran parte delle terre un tempo adibite alle riserve. Dopotutto, gli indiani erano relativamente pochi rispetto alla quantità di terra precedentemente assegnata alle tribù. La legge Dose prevedeva quindi che il surplus delle terre rimaste libere sarebbe stato venduto all'asta pubblica. Cioè in breve finiva in mano ai coloni o alle crescenti compagnie ferroviarie. Nonostante fossero evidenti i danni causati ai nativi, ci vollero decenni prima che le cose cambiassero di nuovo.
più precisamente bisognerà attendere il 1934 e la presidenza Roosevelt. L'Indian Reorganization Act era una sorta di New Deal. Vennero reintrodotte, incentivandole le forme di governo tribale e restituita parte delle terre precedentemente sottratte. Si era così tornati insomma al sistema delle riserve, si incoraggiava il ripristino della cultura nativa.
I consigli tribali potevano scrivere le proprie leggi ed esercitare forme di autogoverno, ma forse ormai era troppo tardi. L'estrema libertà dietro al modello di autogoverno creò confusione e molte tribù finirono per adeguarsi a un modello che si ispirava proprio al governo federale statunitense. In generale, la natura di questa nuova politica conciliante verso i nativi mascherava non troppo bene la volontà da parte del governo statunitense di scrollarsi di dosso una volta per tutte il peso morale dei torti inflitti agli indiani negli ultimi secoli. Grande novità rispetto al passato fu la possibilità concessa alle tribù di di intentare cause giudiziarie contro il governo federale. A metà novecento si promosse così una politica di generali compensazioni e risarcimenti tramite l'Indian Compensation Commission, una sorta di tribunale di riparazione che mirava a far valere i diritti degli indiani sulle terre in passato sottratte loro illegalmente.
Però non facciamoci ingannare, perché i risarcimenti riconosciuti agli indiani erano... calcolati sul valore della terra all'epoca del torto subito, senza contare tutti gli interessi accumulatesi nel tempo. Per di più, se gli indiani avessero accettato queste cifre, spesso molto basse, avrebbero dovuto rinunciare a qualsiasi altro reclamo.
Quindi, alla fine, molti preferirono rifiutare gli esercimenti. Come vedete, la politica statunitense continuava a mostrarsi benevola soltanto all'apparenza. Come dire, noi il nostro lo abbiamo fatto, abbiamo pagato, abbiamo aiutato. Adesso sono problemi degli indiani se le cose non funzionano. L'idea di un futuro indiano per gli indiani era quindi un'illusione e le tribù si trovarono in una sorta di limbo, incentivati al recupero delle proprie tradizioni ma al tempo stesso costretti a dover fare i conti con una terra povera e priva di risorse, con il risultato che in molti dovessero cercare lavoro fuori dalle stesse riserve.
Anche con l'assistenzialismo offerto dal BIA e con tutte le tutele sociali del caso, quasi il 40% degli indiani che avevano abbandonato le riserve in cerca di lavoro nelle grandi città dovette fare marcia indietro. Chi decideva di restare, nonostante la perdita dello status riconosciuto dal BIA, andava comunque incontro alla povertà urbana e all'isolamento culturale. Attorno alla fine degli anni 60, ormai era chiaro che un futuro indiano per gli indiani era pura utopia.
Ma al tempo stesso era ormai palese che i nativi non si sarebbero mai perfettamente amalgamati nella società americana di per sé già multietnica. L'autodeterminazione restava l'unico compromesso possibile tra tutela degli interessi indiani e l'ulteriore responsabilizzazione. del governo federale. Il BIA e tutte le altre agenzie federali trasferirono dunque poteri e responsabilità a consigli tribali. Lo stesso BIA, che negli anni Ottanta conterà circa l'80% di impiegati indiani, smise di essere l'ente finanziatore dei programmi culturali e sociali per ricoprire un ruolo di pura consulenza alle tribù.
La legge del 34 è quella che ancora oggi regola l'istituzione delle riserve indiane. Nonostante le tribù godano della sovranità all'interno delle proprie riserve e non siano soggette a molte delle leggi federali, Le riserve dipendono fortemente dal supporto economico del governo centrale. Le radici di questa povertà non vanno però trovate nei problemi di cui si diceva prima, cioè nell'alcolismo e nella generale depressione.
Queste sono meglio delle conseguenze. Le cause sono piuttosto riconducibili al core delle riserve, alla Terra. Quella Terra che nessuno voleva.
Secondo un'analisi di Forbes, il principale ostacolo allo sviluppo economico delle riserve sarebbe da ricondurre alla gestione comune della Terra. Se la Terra è di tutti, Allora è di nessuno. Gli indiani non possono ricavare reddito dei terreni che formalmente non possiedono a livello individuale e, per di più, nessuno investe per migliorare un terreno che non è soltanto suo. E questo è il motivo per cui le riserve indiane sono tappezzate di case mobili, a volte poco più che squali di container, e per cui mancano la maggior parte delle infrastrutture. Una situazione che accomuna le sorti delle riserve indiane a certi contesti africani e sudamericani, cioè terzo mondo.
Sebbene nel cuore della prima potenza economica mondiale, gli Stati Uniti. E alcune ricerche hanno dimostrato che all'interno di una stessa riserva, le terre gestite privatamente, quindi con i giusti investimenti, garantivano una produttività nettamente maggiore. Nella riserva indiana, di Crowe in Montana, ad esempio, più di un terzo dei terreni sono di proprietà individuali.
E stando a uno studio del Property and Environment Research Center di Bozeman, Montana, queste terre risultano più produttive del 30%, fino a punte del 90% rispetto alle aree a gestione comune. Ma quindi aveva ragione il Dose Act che prevedeva già nel 1887 la cessione a titolo privato delle terre indiane? Forse, o forse più semplicemente il futuro indiano per gli indiani non è più una soluzione sostenibile, così come è anacronistica la soluzione di un consiglio tribale e di una gestione comunitaria della terra, non negli Stati Uniti odierni, non nel 2022, anzi, nel 2023. Il fatto che tutto si basa su una legge di 90 anni fa la dice lunga.
Per di più, il Bureau of Indian Affairs riceve ogni anno da Washington un paio di miliardi di dollari per i programmi di sviluppo nelle riserve, fondi che ovviamente verrebbero meno se una nuova riforma agraria dovesse ristabilire il periodo di rinforzamento. possesso individuale dei terreni indiani. Qualunque siano le cause della povertà e del degrado all'interno delle riserve, è subentrato qualcos'altro.
È subentrata una cattiva gestione, una politica inefficace, un'ambigua strategia, ora volta all'assimilazione, ora all'autodeterminazione. Fatto sta che nel 2018 la Commissione dei diritti civili degli Stati Uniti ha denunciato l'inadeguatezza da parte del Governo federale nel garantire il supporto sanitario, sociale ed economico alla comunità indiana. L'ente di monitoraggio governativo, lo US Government Accountability Office, ha più volte segnalato le inefficienze degli enti federali preposti agli affari indiani, cioè il Bureau of Indian Affairs, l'Indian Health Service e il Bureau of Indian Education. L'Indian Health Service, l'ente che dovrebbe fornire assistenza sanitaria all'interno delle riserve, è un valido esempio per capire come mai la politica federale verso la comunità indiana non funziona, a prescindere dagli orrori della storia passata. Un censimento del 2019 stimava una popolazione indiana sui milioni di individui, ma soltanto il 22% di esso viveva all'interno delle riserve, mentre alcuni appartenevano ancora a tribù non riconosciute.
L'azione dell'Indian Health Services, già precaria per via di scarsi fondi e mancanza di personale, è rivolta soltanto alle tribù riconosciute e opera all'interno delle riserve, quindi va da sé che riesce a intercettare solo una minoranza della totale popolazione indiana. Nel 2020 l'IHS forniva assistenza a milioni di indiani, grossomodo la metà della popolazione complessiva. Non dobbiamo quindi stupirci del livello di mortalità tra le comunità indiane. Secondo lo stesso IHS, le aspettative di vita per un individuo indiano nato oggi sono di 5 anni inferiori a quelle di qualsiasi altra etnia del paese. Inoltre gli indiani continuano a morire ad un tasso più elevato rispetto alla media nazionale in molte categorie, ad esempio diabete, infarti, influenze polmonite, tutto.
tutti tassi nazionali molto più elevati. Ma dove si tocca il fondo è nelle morte violente, nei suicidi e nelle conseguenze dell'alcol. Morte per omicidio, autolesionismo intenzionale cioè suicidio, morti indotte dall'alcol e malattie epatiche croniche e cirrosi. E potremmo andare ancora avanti, ma con il rischio di tediarvi. In questo contesto, l'alcol e le dipendenze sono una vera e propria piaga.
Secondo i dati del National Survey on Drug Use and Health del 2018, il 10% dei nativi americani soffriva di un disturbo legato all'uso di sostanze, di cui il 4% dipendente da sostanze illecite. Il 7% dei nativi manifestava disturbi da assunzione di alcol, che è quasi un miracolo considerando che il 25% degli intervistati aveva ammesso di aver bevuto in maniera pesante nell'ultimo mese prima del sondaggio. Ed è una piaga purtroppo molto diffusa tra i giovani, spesso giovanissimi.
Tre giovani tra i 18 e i 25 anni su 10 ammettevano di bere abitualmente 5 o più drink anche in meno di due ore, mentre un adolescente su 6 beveva abitualmente. Il bello è che all'interno di quasi tutte le riserve la vendita di alcol è proibita. E guarda caso, appena fuori dai confini indiani di queste riserve sorgono spesso degli empori ben forniti. Lo sanno bene gli indiani lakota della riserva Pine Ridge in South Dakota, una delle comunità indiane più povere, dove la disoccupazione raggiunge l'80% e 8 famiglie su 10 hanno problemi di alcolismo a casa.
L'alcol proveniva quasi tutto da quattro negozi delle cittadine di White Clay in Nebraska, a due miglia sud della riserva che, secondo il Nebraska Liquor Commission, hanno venduto nel solo 2021 qualcosa come 162.000 casse di birra. E la popolazione della riserva si aggirava sulle 17.000 persone. Fatto sta che il Consiglio federale nel 2013 decise di revocare lo storico divieto di vendita di alcol nella riserva, visto che, a quanto pare...
non è che contribuiva poi molto a tamponare l'alcolismo dilagante. Certo esistono delle eccezioni e degli esempi, se vogliamo, positivi di vita all'interno delle riserve. Sono diverse infatti le tribù che si sono assicurate dei vantaggi economici dalle concessioni per costruire così casino sui propri terreni. Tra le più virtuose in questo ambito vanno ricordati i Seminol della Florida che, se ricordate bene, erano stati trasferiti in Oklahoma a partire dal 1830. Ebbene, alcuni di loro riuscirono a restare in Florida. Qui, da una quarantina di anni, si sono dati all'imprenditoria tra...
casino, resort e hotel. Gli introiti vengono redistribuiti in gestione fiduciaria tra tutti i membri della tribù, ciascuno dei quali riceve 128.000 dollari annuali. Anche i minorenni ricevono questi soldi, ma né loro né la stessa famiglia possono prelevarli fino al 18° anno di età, il che vuol dire che appena maggiorenni i giovani Seminol sono milionari.
Nel 2007 i Seminol sono riusciti persino ad acquisire la catena Hard Rock Café per 965 milioni di dollari. Sì, esatto, quell'hard rock caffè di cui tutti, presumo, abbiate una maglietta a casa. Siate contenti. avete pur sempre risarcito una tribù indiana ingiustamente oppressa.
I Seminol sono un'eccezione, sia ben chiaro. Ora però io non so se questa tirata sintetica abbia reso giustizia agli indiani d'America, ma credo sia necessario insistere su questo punto. Cioè, non ha più senso ormai puntare il dito verso la colonizzazione dei bianchi e scaricare sui cowboy e sugli yankees le responsabilità di quanto avviene oggi nelle riserve.
C'è tutta una politica che non funziona evidentemente. E bisognerebbe chiedersi Quanto può ancora avere senso proseguire sulla strada di un modello forse decisamente anacronistico come questo? Io la risposta non ce l'ho. Voi?
Per aspera, ad astra. Dimenticavo signore e signori, dal 9 al 13 marzo sarò a Istanbul con Wave Travel. Ci sono ancora pochi posti disponibili, quindi chi di voi vuole venire è benvenuto. Trovate l'organizzazione e il tragitto che faremo tramite il link in descrizione. Inoltre, il viaggio servirà da base essenzialmente per fare un nuovo video reportage, stile quello che abbiamo fatto in Albania, però parlando più che altro della città di Istanbul.
E niente, ci vediamo. Ciao!