Robert Poe Garrison analizza la grandezza nell'uso della lingua così tipica di Leopardi e le difficoltà della sua traduzione in lingua inglese. Giacomo Leopardi soffrì di molti disturbi nel corso della sua infelice esistenza, asma, scoliosi, oftalmia, stitichezza, idropisia e depressione per citarne alcuni, ma l'insonnia è quello più strettamente associato al suo genio. Mentre tutti nella sua città natale, il piccolo borgo di Recanati, dormivano, Leopardi rimaneva sveglio a leggere, scrivere, tradurre o fantasticare. Come figlio primogenito di un conte, poteva pretendere che i domestici di famiglia, nonostante la loro rabbia, gli servissero la prima colazione nel pomeriggio o il pranzo a mezzanotte. Mai in pari con i ritmi diurni del resto del mondo, era, nel miglior senso niciano del termine, inattuale.
Leopardi trascorse la giovinezza tra gli antichi in una delle più grandi biblioteche private d'Europa, quella di suo padre. Quando gli altri bambini della sua età ancora recitavano i tempi dei verbi, lui già padroneggiava la lingua latina e aveva imparato il greco da autodidatta, leggendo in ordine cronologico tutte le opere di autori greci trovate sugli scaffali del padre. A 16 anni presentò al padre un'opera filologica sulla vita di Plotino, con traduzione latina e commento.
Nello stesso anno elaborò un commentario sui retori del II secolo d.C. e poco tempo dopo imparò l'ebraico per leggere la Bibbia senza mediazioni. L'elenco delle sue traduzioni e dei suoi commentari giovanili fa tremare i polsi.
Oltre agli studi filologici, Leopardi sgobbava anche sulle opere in poesia e in prosa dei maestri italiani. Imparò inoltre la scienza moderna e il pensiero illuminista, indagò a fondo l'astronomia post copernicana, l'empirismo inglese e la concezione meccanicistica della natura. Poco più che ventenne aveva già compreso il pensiero di Galilei, Pascal e vari pensatori dell'illuminismo, così come le metriche di Virgilio.
Aveva letto Voltaire, Locke e decine di altri contemporanei nella loro lingua. In questo modo la sua erudizione spaziava ampiamente tra epoche e discipline, attraverso lingue antiche e moderne e in tutta l'Europa, nonostante egli non si fosse avventurato oltre i confini della sua provincia natale fino all'età di 24 anni. Leopardi iniziò a scrivere le poesie che avrebbero fatto parte dei suoi canti a circa 19 anni, quando non poteva più permettersi di compromettere la sua salute e di sforzare la vista.
per l'eccessiva lettura. Interpretava l'insorgere e l'aggravarsi dei suoi problemi di salute come un'espulsione dal giardino della gioventù e una precoce discesa nella vecchiaia. Nei suoi primi componimenti, all'Italia, sopra il monumento di Dante e ad Angelo Mai, un noto filologo, proietta su un piano storico il pathos della giovinezza perduta, lamentando l'allontanamento dell'Italia dal suo illustre passato.
In una retorica ardente e magnificamente stilizzata, queste odi patriottiche attribuivano la stagnazione dell'epoca in Italia alla sua incapacità di riprogettare il proprio retaggio in vista del futuro. Troviamo qui un motivo che ricorrerà in molte forme nei suoi scritti successivi, vale a dire la profonda avversione al presente quando perde le connessioni con il passato. La maggior parte delle poesie successive dei canti vennero sviluppate durante o dopo una devastante crisi esistenziale che Leopardi attraversò nel 1819. La desolante consapevolezza di essere condannato a un futuro senza amore, segnato da malattie, deformità e morte precoce, coincise con la sua convinzione, altrettanto forte, che Dio non esistesse, che il cosmo fosse fondamentalmente indifferente nei confronti del genere umano.
e che la sofferenza umana fosse senza redenzione. La condizione umana sarebbe così profondamente crudele e assurda da diventare sopportabile soltanto grazie alla nostra innata capacità di crearci illusioni e false consolazioni. A soli vent'anni Leopardi aveva perso la capacità di illusione e non poteva più credere alle promesse di redenzione della religione, al nazionalismo o al mito del progresso umano caratteristico dell'età moderna. Su quest'ultimo sarebbe anzi rimasto particolarmente scettico per il resto della vita. Dovremmo comunque resistere alla tentazione di attribuire il pessimismo metafisico di Leopardi alle sue disgrazie personali.
Il contemporaneo Nicolò Tomaselli Leo, cattolico militante, definì Leopardi una rana che gracida all'infinito. Dio non c'è perché sono gobbo. Dio non c'è perché sono gobbo.
Leopardi gli rispose che i critici avrebbero dovuto prendere di mira le sue argomentazioni, piuttosto che la sua diformità. Egli sosteneva che la sua visione del mondo rappresentasse una risposta coerente e non autoingannatoria alle scoperte della scienza moderna. Quelle scoperte che avrebbero portato Blaise Pascal a dichiarare «Una volta scontratosi con la relatività pura dell'universo post-copernicano, l'eterno silenzio di quegli spazi infiniti mi terrorizza», una frase che Leopardi rielaborò nella sua poesia L'Infinito del 1819. Con la sistematica lucidità di un filosofo greco, Leopardi fece un bilancio di ciò che la scienza aveva scoperto sull'impianto materialista della realtà.
E da lì trasse quelle che reputo fossero le inevitabili conclusioni circa l'infondatezza dei valori umani e la totale indifferenza della natura verso il destino del genere umano. Nel fare questo divenne un punto di riferimento della nostra disillusa visione moderna, anticipando Nice nel rendere esplicite e senza sotterfugi le conseguenze morali del ribaltamento dei fondamenti religiosi e umanistici dell'ordine cristiano del mondo, operato dalla scienza moderna. Verso la fine della vita, nella Ginestra, la sua ultima grande poesia, Leopardi finalmente affermò un valore irrevocabile, quello della solidarietà umana di fronte all'immane violenza della natura.
La poesia di Leopardi si distingue dagli altri corpora lirici dell'era moderna perché possiede una straordinaria capacità di mettere a nudo la vergogna universale della condizione umana e al tempo stesso incanta i lettori con la magia ipnotica della sua musicalità. del suo linguaggio figurato e dei suoi accenti di pathos. Il problema che invariabilmente si pone con Leopardi è se quella magia poetica, quella peculiare tensione tra ciò che le sue poesie dicono e come lo dicono, possa essere resa in parole diverse da quelle di cui egli stesso si è servito nella sua lingua madre.
In breve, i suoi canti possono venire cantati in una lingua diversa da quella italiana? Ritengo che le sfide che i suoi traduttori in inglese affrontano siano enormi, maggiori che con qualsiasi altro poeta italiano, e che dunque non dovremo aspettarci troppo in linea di principio, nonostante i loro ammirevoli sforzi. Jonathan Galassi, che ha passato diversi anni a tradurre in inglese le poesie di Leopardi, sembra essere d'accordo con me.
Nell'introduzione alla sua nuova edizione dei Canti, egli ammette che il compito sembra quasi senza speranza. Se la vicinanza a livello letterale resta l'obiettivo principale, si sopprimono però deliberatamente alcuni aspetti delle poesie di Leopardi per ragioni di chiarezza. Ad esempio, Leopardi nelle sue poesie inscena spesso una danza intricata tra sintassi e semantica, distanziando vistosamente i soggetti dai verbi e la testa dai modificatori, pratica che i retori chiamano iperbato.
Introduce nei suoi periodi salti sintattici, rimbalzi, illusioni. Inoltre, spesso egli accosta una sintassi intricata ad affermazioni incisive, creando una miscela inimitabile di toni arcaici e moderni. Prendiamo i seguenti versi del suo poema, nelle nozze della sorella Paulina. O miseri o codardi, figliuoli avrai, miseri e leggi, immenso tra fortuna e valor dissidi oppose, il corrotto costume, hai troppo tardi.
E nella sera dell'umane cose acquista oggi chi nasce il moto e il senso. Tutte le scelte operate da Galassi sono assolutamente valide, ma alla leggibilità della sua versione si paga un prezzo. L'originale risulta appiattito e l'interpretazione è necessariamente più prosaica.
Un malinteso comune è che, a differenza della prosa, dove suono e senso divergono, la poesia fonda entrambi in una unità inscindibile. In realtà, quel che fa la poesia è proprio l'opposto. Attraverso una serie di tecniche prosodiche, introduce calibrate disgiunzioni tra senso e suono. Paul Valéry ha reso elegantemente il concetto quando ha definito la poesia una prolungata esitazione tra senso e suono.
Dopo aver appreso i sistemi di inversione sintattica e iperbato, Dagli autori greci e latini, così come dai predecessori italiani quali Petrarca e Tasso, Leopardi era in grado di prolungare quell'esitazione tra suono e senso più efficacemente di qualsiasi altro poeta del periodo moderno. Purtroppo la maggior parte delle sue esitazioni prolungate, anche se non tutte, sono estremamente difficili, quando non impossibili, da riportare in inglese. Un'altra caratteristica esasperante della sua poetica per il traduttore in lingua inglese è il sistematico impiego di parole comuni.
Leopardi chiarisce questa pratica nei suoi Tacquini, dove opera una distinzione tra ciò che egli chiamava parole e ciò che chiamava termini. Le parole sono vocaboli rimasti in circolazione attraverso i secoli e contengono in sé una serie di associazioni, connotazioni e significati latenti. I termini, al contrario, sono astorici, univoci, spesso espressioni tecniche che non connotano ma denotano soltanto. Conservando la loro storia metaforica e sensoriale, le parole sono dotate di una serie di immagini accessorie, mentre i termini presentano la nuda e circoscritta idea di quel tale oggetto. Leopardi spiega, se io chiamo una pianta o un animale con il nome dato dall'inneo, non evoco nessuna di queste immagini accessorie, anche se la cosa in sé è chiaramente indicata.
Si prendono le prime righe della celebre poesia a Silvia, dove la parola chiave è il termine mortale, mortal in inglese, che mantiene la sua risonanza in tutto il lungo poema. Silvia, rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale. La maggior parte dei traduttori non accetta di tradurre letteralmente dall'italiano dal momento che la frase your mortal life con la sua improduttiva ridondanza diventa in inglese assolutamente piatta.
Leopardi impiegava diffusamente e deliberatamente questo tipo di parole in tutta la sua produzione poetica, parole che spesso muoiono nella pagina tradotta in inglese. Uno dei motivi per cui Leopardi attribuiva così tanta importanza a concetti quali immagini accessorie, connotazioni laterali e sfumature etimologiche, oltre alla ragione per cui inseriva deliberatamente costruzioni arcaiche nel suo linguaggio, altrimenti decisamente moderno, era il suo orrore per il presente, quando veniva spogliato dei suoi collegamenti con il passato. Per questo introdusse elementi inattuali nella stessa prosodia delle sue opere, per conferire una penombra temporale ai fenomeni in esse evocati e descritti.
Solo quando memoria e immaginazione fondevano nella percezione, Leopardi poteva sentirsi liberato dall'orrida nudità del presente cronologico. Decenni prima che Baudelaire lamentasse le tendenze riduzioniste della sua epoca, Leopardi individuò nell'età moderna una perdita catastrofica della memoria poetica e un crescente impoverimento di questo tipo stereoscopico o stratificato di percezione. L'attivismo assume una forma completamente diversa nella poesia rispetto a quanto non accada in altri settori. Così il componimento più notevole di tutti i canti L'infinito ci conduce attraverso l'attività interiore di una mente assolutamente quieta, impegnata in una sorta di profonda contemplazione che permette alla nostra esperienza del reale di trascendere i suoi limiti ordinari.
È una delle poche poesie incondizionatamente positive nel corpus di Leopardi. Sempre caro mi fu quest'ermocolle e questa siepe che da tanta parte Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude, ma sedendo e mirando, interminato spazio di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando, e mi sovviel eterno. e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei, così tra questa immensità s'annega il pensier mio, e il naufragarme dolce in questo mare.
Tutta l'azione si svolge all'interno della mente di un soggetto immobile che contempla un paesaggio, eppure l'azione non potrebbe essere più drammatica nella dissoluzione del cronologico ora, in un oceano di immensità spazio-temporale. Come si realizza l'esperienza dell'infinito? Proprio attraverso un confronto attivo tra la percezione del suono del vento e quella del silenzio nella mente del poeta. In virtù della coincidenza tra il percepito e l'immaginato, l'eterno viene in mente. Insieme con l'Eterno, le morte stagioni, così come la presente e viva, avvolgono la mente dell'autore.
Questo significa che il presente ha superato il suo isolamento dal passato e, ancor più drammaticamente, che il tempo diacronico ha superato il suo isolamento dall'Eterno. Il tutto grazie a una serie di congiunzioni inattuali tra percezione superficiale e percezione profonda. La quindicesima riga dell'infinito rappresenta una delle più silenziose, ma anche una delle più epocali, rivoluzioni della poesia moderna.
Rimane una certa tristezza nel considerare che anche nella traduzione di Galassi, le poesie di Leopardi non riescano ad affermare con forza le loro virtù, né a dimostrare il rango dell'autore, inequivocabilmente unico. tra i più grandi poeti del canone occidentale moderno. Forse Leopardi era talmente inattuale che fuori dall'Italia il suo tempo non arriverà mai veramente.
Forse resterà sempre, almeno per il lettore non italiano, fuori tempo, di difficile accesso, confinato nel suo deserto di dolore, che alla fine non è poi così universale come egli credeva che fosse. Una cosa è certa, Leopardi ha scritto una o due, se non tre o quattro, delle più grandi poesie del canone moderno. In ciascuna di esse raggiunge il medesimo rimarchevole risultato, liberare il potere latente delle parole di risuonare nelle profondità del tempo esistenziale, così come in quelle del tempo storico, liberando di conseguenza il tempo dalla tirannia della cronologia.