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Conflitti e Spiritualità nei Balcani

ricordate quando dicevo che il video sul vietnam era il video più lungo del canale? scherzavo, non avevamo preso in considerazione i balcani. prima di cominciare però vorrei fare un ringraziamento a conflict of nations, lo sponsor che ha permesso la realizzazione di questo mega episodio, un Lavoraccio. Su Conflict of Nato sarete voi stessi ad avere a che fare con le guerre, ovviamente immaginarie. Conflict of Nato è un gioco di strategia militare e PvP gratuito, disponibile sia su PC che su mobile, dove avrete la possibilità di prendere il controllo di una nazione contemporanea esistente, potenziarne l'arsenale, gestirne l'economia e condurla in battaglia contro altri 128 giocatori.

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I must tell you when there was a war in Croatia we protected all Croata in Serbia. We protected when there was a war in Bosnia we protected all Musulmani in Serbia. We preserved only multi-ethnic... Il governo di Milojevic ha fatto un'esperienza di guerra, causata dal desiderio di costruire una Serbia più grande.

È facile dimenticare quanto è venuto a successo. Se l'aveva, avrebbe portato a una tragedia umanitaria permanente e alla fine di una visione di un'Europa indivisibile e democratica. persone. 100.000 soltanto in Bosnia e Herzegovina.

Quasi 4 milioni di anime, invece, rimangono senza una casa e una comunità. Un'intera regione è stata ridotta in pezzi. Si tratta del pegno delle guerre yugoslate, il più cruento contesto bellico europeo dopo la seconda guerra mondiale.

Il primo in cui la Nato abbia mai compiuto un'azione di guerra e sempre il primo, dopo il processo di Tokyo, ad aver richiesto l'istituzione di un tribunale penale internazionale per crimini di guerra. crimini contro l'umanità e genocidio. Ora, discutere delle guerre jugoslave non è facile, e non solo perché sono passati poco più di vent'anni dalla loro fine. Oggi ricostruiremo sì gli eventi di un maxi-conflitto consumatosi a due passi da casa nostra, ma cercheremo di comprenderne anche le ragioni storiche, politiche e sociali.

Perché di guerre jugoslave a scuola... Se ne parla forse per miracolo, troppi sumeri e babilonesi. A patto che effettivamente si sappia cosa è stata davvero la Jugoslavia. La narrazione che va per la maggiore è quella che avete sentito all'inizio di questo video. Tito muore, i Balcani si sfaldano e intervengono i buoni a rimettere le cose.

a posto. Purtroppo, cari miei, la realtà dei fatti è molto più complessa di così e ha a che fare con dei termini a cui ora come ora siamo più che abituati. Propaganda, odio, interessi economico egoistici e nazionalismo. Insomma, la tossicità esemplificata in quattro termini. Ebbene, queste sono le guerre jugoslave.

Prima di trasformarsi in realtà, la Jugoslavia rappresentava innanzitutto un'utopia. Riunire in un solo paese tutte le popolazioni slave della penisola balcanica. Jugoslavia, infatti, vuol dire letteralmente terra degli slavi meridionali.

Gli slavi meridionali... sarebbero giunti nei Balcani tra il VI e l'VIII secolo d.C., crearono delle proprie istituzioni politiche, ma alla fine caddero tutti, in qualche modo, sotto il dominio straniero. Il regno di Croazia, cattolico, venne inglobato nel regno d'Ungheria, per poi passare a Moniasburgica assieme alla Slavonia, fino alla nascita dell'impero austro-ungarico, destino a cui andarono incontro anche la maggior parte delle cosiddette terre slovene e la voevodina.

Attorno al XV secolo, invece, il regno di Bosnia, il despotato di Serbia, il il Principato di Zeta, grossomodo identificabile con l'attuale Montenegro e l'odierna Macedonia del Nord, caddero sotto il controllo dell'Impero Ottomano. Per via della tolleranza religiosa di Costantinopoli, l'introduzione dell'Islam fu accompagnata dall'ascesa di una forte chiesa ortodossa. Lo stesso accadde in Voevodina ed Erzegovina, regione bosniaca così chiamata dagli Ottomani, perché al tempo governata da un potente duca, Herzog, in tedesco.

Precedentemente, tra il 1346 e il 1371, Queste regioni slave ora ottomane, più alcune porzioni delle attuali Croazia, Bosnia, Albania e Grecia, erano appartenute all'impero serbo, fondato dall'autoproclamato zar Dusan il Grande. Tenete a mente questo particolare perché ci tornerà molto utile a breve. Comunque, come è facile immaginare, a definire le identità nazionali degli slavi meridionali fu la frammentazione, non l'unità. In seguito alle guerre napoleoniche e con l'indebolimento dell'impero ottomano, i Balcani assistettero a diverse ondate di indipendentismo nazionalista per tutto il 1800. Le prime entità a rendersi autonome furono il Principato di Montenegro, la Bosnia-Rozegovina, che divenne un protettorato dell'impero austro-ungarico, e il Regno di Serbia.

Quest'ultimo aspirava a riunire sotto un'unica nazione tutti i serbi, al tempo sparsi tra impero ottomano e territori asburgici. Un cospicuo numero di serbi, ad esempio, abitava nella Krajina, letteralmente la frontiera militare asburgica. creata per contrastare le forze musulmane.

Ancora, la corona serba voleva annettere la provincia ottomana del Kosovo. Benché fosse abitato da una maggioranza albanese e nel tempo avesse visto l'avvicendarsi di diversi popoli, i nazionalisti serbi consideravano il Kosovo come la culla della propria chiesa ortodossa. Altra informazione da immagazzinare per dopo, magari scrivetevele.

Nel corso della Prima Guerra dei Balcani, condotta in funzione anti-ottomana, la Serbia occupò il Kosovo, e dunque anche il suo capoluogo, Skopje. che oggi è la capitale della Macedonia del Nord. Percependo il peso demografico e militare della Serbia, diversi movimenti nazionalisti slavi cominciarono a vedere l'unificazione con Belgrado come l'unica via per rendersi autonomi dall'impero austro-ungarico. In risposta a queste spinte centrifughe, Vienna optò per riannettere la Bosnia-Herzegovina, allorché i nazionalisti serbi fomentarono il sentimento anti-asburgico tramite la mano nera.

una società segreta che si occupava di finanziare gruppi rivoluzionari nei territori slavi e austro-ungarici. Fu di fatto uno di questi gruppi, la Giovane Bosnia, a compiere uno degli atti più eclatanti di tutto il XX secolo. Si tratta dell'associazione in cui militava Gavrilo Princip, l'uomo che il 28 giugno del 1914 assassinò a Sarajevo l'arciduca Franjo Ferdinando d'Austria.

C'è un motivo ben specifico se ci troviamo a citare la proverbiale goccia che fece traboccare il vaso, e ha a che fare con la nascita stessa dell'idea. di Jugoslavia. Un mese dopo l'attentato, l'Austria-Ungheria si assicurò il supporto della Germania e dichiarò guerra alla Serbia, atto che scatenò la reazione della Russia, che a sua volta era alleata di Belgrado. Sul finire del 1914, il primo ministro serbo, Nicolai Pacic, dichiarò l'obiettivo bellico della Serbia, liberare serbi, croati e sloveni dal gioco austro-ungarico. Pacic, nazionalista convinto, aveva un doppio fine, ricostruire una grande Serbia, discendente spirituale dell'impero di Dusan il Grande.

Un proclama magniloquente, davanti a cui però si ergeva un altro ostacolo, il Regno d'Italia. Infatti il Regno Unito voleva convincere Roma a entrare in guerra dalla parte della triplicentese, in cambio del riconoscimento della sovranità italiana sulla Dalmazia. Firmato il Trattato di Londra, una serie di leader croati, sloveni e serbi bosniaci, fuggiti prima a Parigi e poi alla stessa Londra, diede vita al cosiddetto Comitato Jugoslavo.

Questo chiese formalmente alla Serbia l'unificazione dei rispettivi territori, vale a dire Croazia-Slavonia, Slovenia e Bosnia-Herzegovina. Con ogni probabilità il Comitato temeva che senza questa unificazione l'Italia avrebbe avanzato pretese territoriali ancora più ampie e, da Belgrado, il primo ministro Pacic si leccò barba e baffi. Nel XVIII, a guerra finita e dissoltosi l'impero austro-ungarico, venne sancita la nascita del regno dei serbi, dei croati e degli sloveni, che accolse anche il Montenegro e la Voevodina.

Il nuovo stato indipendente così formatosi, posto sotto l'autorità della dinastia serba dei Karagiorgevic, con capitale Belgrado, controllava di riflesso anche i territori serbi di Kosovo e Macedonia del Nord. e poteva a tutti gli effetti essere riconosciuto come la prima vera Jugoslavia. Come avrete notato questa Jugoslavia più...

che terra degli slavi meridionali ruotava attorno agli interessi di un solo popolo, quello serbo. Fu chiaro sin da subito, e non giovò certo all'unità nazionale. Nei successivi vent'anni Belgrado procedette a serbificare il regno, assimilando linguisticamente Macedoni, Albanesi e Kosovari, e privando imprenditori e contadini musulmani delle proprie terre. Per via di questo assetto asimmetrico, il regno jugoslavo si indeboli a tal punto da venire invaso nel 41 dalle potenze dell'Asse, che lo scorporarono in diversi stati fantoccio nazifascisti.

Il più prominente tra questi fu lo Trattato indipendente di Croazia, governato da Ante Pavelic, leader dell'organizzazione ultranazionalista cattolica Ustascia, già noto per aver orchestrato nel 34 l'assassinio del re serbo Alessandro I. Con l'appoggio di Hitler e Mussolini, Pavelic ordinò la costruzione di Jasenovac, un campo di concentramento destinato a sterminare ebrei, rom e soprattutto serbi. Oltre a Pavelic, nella Jugoslavia della Seconda Guerra Mondiale operavano altre due fazioni, anch'esse responsabili di atrocità di vario genere. La prima, quella dei cetnici, raggruppava delle divisioni dell'esercito serbo-jugoslavo che erano fedeli alla dinastia Karagiorgevic, inizialmente sostenuta dagli alleati. La seconda fazione invece raccoglieva i cosiddetti partigiani, membri che facevano parte dell'esercito del Partito Comunista Jugoslavo, messo al bando nel 21. La resistenza dei partigiani Era guidata dal segretario generale dei comunisti jugoslavi, un ex sergente austro-ungarico di origini croate-slovene, Josip Broz.

Tutti, però, lo conoscevano con uno pseudonimo ancora oggi inspiegabile, Tito. I partigiani ottenero l'appoggio degli alleati soltanto in seguito alla resa dell'Italia, nel 43. Presero possesso della Dalmazia e nel 45 scacciarono le forze nazifasciste di Pavelic. In questo modo la Jugoslavia tornò ad esistere.

Ma in maniera sensibilmente differente. L'assetto centralista e monarchico venne sostituito da una federazione di sei repubbliche socialiste. Slovenia, Croazia, Macedonia, Montenegro, Serbia e Bosnia-Herzegovina.

Oltre agli Slavi meridionali, la federazione riconosceva anche le importanti minoranze presenti sul suo territorio. Quella albanese, nella regione autonoma serba del Kosovo, quella ungherese, nella provincia autonoma serba della Vojvodina, e quella bosniaca. I cosiddetti bosniac... non erano nient'altro che slavi convertiti all'Islam durante il dominio ottomano, e componevano circa un terzo della popolazione della Bosnia-Herzegovina.

Di fatto non veniva indicato un popolo bosniaco unitario, e la Bosnia-Herzegovina era l'unica repubblica socialista jugoslava ad essere stata concepita come unione dei tre popoli e delle tre religioni presenti sul suo territorio, serbi ortodossi, croati cattolici e bosniachi musulmani. Anche questa informazione sarà fondamentale più avanti, quindi segnatevela nel vostro tacquino. A ogni modo, per la prima volta, tutti gli slavi meridionali avrebbero goduto di uguali diritti, finalmente.

Appunto, però, si trattava di un'utopia, la cui realizzazione non poteva avvenire. basarsi principalmente sulle sue intenzioni. Certo, c'erano sei repubbliche, ma le governava un singolo uomo. Tito, per evitare qualsiasi tipo di conflitto interno, Tito organizzò la politica jugoslava secondo il metodo staliniano. In sintesi, partito unico, epurazione delle opposizioni e repressione delle proteste.

Eppure Tito, che faceva leva sulla retorica per cui i partigiani avevano sconfitto da solo il nazifascismo, non seguì i diktat dell'Unione Sovietica e rivendicò una propria autonomia ideologica. Il titismo, la via jugoslava al socialismo, si imperniava sui partigiani. non allineamento in politica estera e sull'autogestione operaia, principio secondo cui sono i lavoratori stessi a dirigere aziende e fabbriche statali.

Non solo, negli anni 60 agli jugoslavi fu concesso di aprire e gestire piccole imprese private, nonché di diagnozioni. viaggiare più o meno liberamente all'interno delle repubbliche federate. A dispetto di quanto si dice, nonostante il suo carisma, Tito faticò per tenere unita la Jugoslavia. La capitale rimaneva sempre Belgrado, ed era dunque la Serbia che controllava le forze armate e i maggiori fondi statali, evidenza contestata dalla Croazia. Gli albanesi chiedevano che il Kosovo, lasciato indietro da Belgrado, diventasse una repubblica autonoma, mentre a Ljubljana ci si lamentava dei pochi investimenti del governo centrale nelle infrastrutture slovene.

I montenegrini desideravano che la loro lingua venisse riconosciuta ufficialmente a livello federale, mentre la chiesa ortodossa macedone e quella cattolica croata spinsero per tornare a svolgere un ruolo di primo piano nella comunità. Queste insoddisfazioni furono poi acuite dalla crisi del petrolio del 73, che costrinse la Jugoslavia a fermare i propri investimenti nelle infrastrutture e nei servizi sociali. Per di più, in molti casi, i consigli dei lavoratori avevano reso l'autogestione operaia un mezzo tramite cui aumentare i propri stipendi.

Situazione che contribuì a creare casi di corruzione e mette asimmetrie economiche tra una repubblica e l'altra. Insomma, ognuno voleva tirare acqua al proprio mulino. Un ormai ottoagenario Tito sapeva di non poter più fare affidamento sulla sola repressione e quindi...

optò per un'ulteriore decentralizzazione. Nel 74 il maresciallo varò una nuova Costituzione federale. Questa disponeva alla creazione di un organo governativo, la Presidenza della Jugoslavia, composto da Tito, sei presidenti scelti da ogni repubblica, più altri due delegati per Kosovo e Vojvodina, con i quali si intendeva limitare la componente serva.

Tito assunse il ruolo di presidente a vita e prevede che, alla sua morte, il suo seggio sarebbe stato occupato a turno ogni anno da un rappresentante di una delle sei repubbliche. Tuttavia, le clausole costituzionali più rilevanti riguardavano il diritto di ognuna delle nazioni della Jugoslavia di autodeterminarsi e quindi di secedere dalla federazione, a patto che tutte le altre repubbliche fossero d'accordo riguardo all'alterazione dei confini. Nell'ottica di Tito, la costituzione del 74 assomigliava più che altro a un contentino.

Del resto, finché ci sarebbe stato lui al potere, in qualità di figura paterna, nulla sarebbe cambiato. L'unico rilevante problema è che nessuno, per fortuna direi, è eterno. Quando infatti la morte raggiunse il maresciallo, sei anni dopo, l'impalcatura che aveva creato il nostro amico Tito mostrò i primi concreti segni di cedimento.

Nel 1981, un anno dopo la morte di Tito, la crisi economica degli anni 70 si fece più acuta, con alti tassi di inflazione e disoccupazione. Belgrado si trovò costretta a chiedere l'aiuto addirittura al Fondo Montenegrini Internazionale e imporre misure di austerità. A risentire maggiormente della crisi fu il Kosovo, praticamente lo scantinato della Serbia, dove migliaia di albanesi chiedevano a gran voce l'indipendenza. Si trattava di un affronto alla stessa idea di Jugoslavia, che in tal caso avrebbe dovuto riconoscere tra i suoi popoli costituenti anche gli albanesi kosovari, lo ricordiamo un gruppo non slavo, tra l'altro prevalentemente musulmano.

Inoltre, i quadri di Belgrado temevano che il dittatore albanese Enver Hoja, nemico giurato della Jugoslavia, avrebbe potuto avanzare pretese territoriali sul Kosovo. Di conseguenza, le autorità jugoslave repressero la rivolta e, negli anni successivi, arrestarono più di 1200 attivisti albanesi per crimini politici. Apparentemente l'evento fu…irrilevante.

Che gli albanesi kosovari si lamentassero, poi, non era certo una novità. Ciononostante, il Kosovo sarebbe stato una sorta di ground zero della dissoluzione… della Jugoslavia e quelle manifestazioni avrebbero innescato una reazione a catena dagli esiti all'epoca ancora imprevedibili. In seguito ai disordini politici dell'81, almeno 30.000 tra Serbia e Montenegrini lasciarono il Kosovo per trasferirsi in Serbia, dove c'erano maggiori opportunità di lavoro. Alcuni migranti, però, riferirono di essere fuggiti perché il partito comunista kosovaro, a maggioranza albanese, discriminava da decenni le minoranze slave in modo da sopraffarle.

In tutta la Serbia cominciarono a circolare voci riguardo stupri di donne serbe e distruzione di luoghi sacri ortodossi perpetrati da albanesi. Questi racconti servirono un assist sensazionale al mal sopito sentimento nazionalista serbo. Infatti, secondo la retorica nazionalista tornata in auge con la morte di Tito, i serbi i sarebbero stati penalizzati dalla decentralizzazione jugoslava.

Quindi non sembrava così assurdo tornare a pensare ancora una volta alla grande Serbia, l'unico stato in grado di tutelare i serbi. Questi concetti trovarono la loro massima espressione nel settembre 1986, quando il giornale filogovernativo serbo Vecerni e Novosti pubblicò, criticandola, la bozza di un documento trapelato dall'Accademia Serba delle Scienze e delle Arti, SAMU, la più importante istituzione accademica serba. Il cosiddetto memorandum sanu riportava le seguenti affermazioni. Siccome Tito era croato, aveva disegnato la Jugoslavia come una federazione atta a indebolire la Serbia, privandola delle regioni abitate da serbi in Montenegro, Macedonia, Bosnia-Herzegovina e Croazia.

In nome della Jugoslavia, la Serbia invece aveva sacrificato 2 milioni e mezzo di compatrioti, ma ora i partiti comunisti di Croazia e Slovenia stavano sfruttando le sue industrie per arricchirsi a spese dei serbi. e far gravare su di loro l'austerità. Le minoranze serbe in Croazia, Regione Cattolica e Kosovo, Pussulmana, erano in pericolo, a rischio di genocidio fisico e culturale.

Si trattava di un messaggio revanchista inaccettabile per l'elite comunista jugoslave, il tutto poi condito da un miscuglio di accuse e di offese a Tito. Il primo a schierarsi fermamente contro il memorandum sanu fu l'allora presidente del Partito Comunista Serba, un uomo che, prima di entrare in politica, aveva diretto diverse aziende statali nei settori bancario ed energetico, e che era salito all'apice del partito soltanto qualche mese prima. Questo memorandum, commentò l'uomo in questione, non è nient'altro che l'effetto del più oscuro nazionalismo.

Ebbene, quell'uomo si chiamava Slobodan Milošević. Se Slobodan Milošević fosse una persona qualsiasi, potremmo anche dare per vere le sue parole. Però, per chi di voi non dovesse sapere chi sia quest'uomo, non preoccupatevi, avremo modo di incontrarlo più e più volte in questo video. Sicuramente possiamo dire che Milošević, come altri politici serbi, era segretamente d'accordo con il documento dell'Accademia e non impiegò molto tempo per palesare le sue vere intenzioni.

Nell'87 Milošević fece visita a Kosovo Polje, a qualche chilometro da Pristina, la capitale del Kosovo attuale. Da qui era stata lanciata una petizione per chiedere al governo serbo di intervenire a tutela della minoranza serva kosovara che, lo abbiamo detto, denunciava persecuzioni da parte della comunità albanese. In quell'occasione, di fronte a 15.000 serbi kosovari, Milošević sentenziò «Nessuno deve permettersi di farvi del male».

Non furono parole di poco conto, anche perché Kosovo Polje non era un luogo qualsiasi. Qui, il 28 giugno del 1389, il condottiero serbo Lazar Rebeljanović, erede del disgregato impero serbo, Tentò di frenare l'avanzata dell'impero ottomano nei Balcani, uccise persino il sultano Murad I, subendo tuttavia una sonora sconfitta. Secondo i nazionalisti, che avevano costruito un vero e proprio mito, peraltro ricolmo di falsità attorno al rebelianovic, la disfatta di Kosovo Poli rappresentava l'inizio delle sofferenze serbe, nello specifico a opera dei musulmani. Musulmani che in epoca contemporanea venivano automaticamente associati agli albanesi, considerati quindi come degli usurpatori. Il Kosovo non era dunque che l'esempio più lampante della misera condizione dei serbi, ma adesso era diventato anche il luogo della loro resurrezione.

Per i due anni successivi, Milošević propagandò l'idea che i serbi fossero vittime della Jugoslavia e della storia, con la S maiuscola, soggetti a soprusi da ormai un millennio. Il leader comunista, ormai soltanto sulla carta comunista, ambiva a diventare quello che noi potremmo definire Zar. Nelle sue parole Milošević offrì alla popolazione una rivoluzione antiburocratica guidata dal popolo serbo. Catalizzata l'attenzione del pubblico, Milošević permise lo svolgimento di manifestazioni e proteste cosiddette solidali, condotte da decine di migliaia di persone non solo in Serbia, ma anche nel vicino Montenegro. Sul finire dell'88, queste marce facilitarono la deposizione degli apparati comunisti in Montenegro, Vojvodina e Kosovo, che vennero rimpiazzati da dei sostenitori di Milošević.

Poi, nel marzo del 1989, Belgrado emendò la Costituzione della Repubblica Serba e revocò l'autonomia di Voevodina e Kosovo. Le manifestazioni che seguirono vennero soppresse con la violenza dalle forze di sicurezza serbe. Una volta diventato presidente della Serbia e membro della Presidenza della Jugoslavia, il 28 giugno del 1989, a esattamente 600 anni dalla sconfitta di Kosovo a Polje, Milošević tornò in Kosovo, a Pristino. Qui, di fronte al Gazimestan, il Memoriale della Battaglia, espose un concetto scontato ma dalle implicazioni terrificanti. I serbi, che avevano combattuto e perso nel 1389, erano gli stessi che stavano combattendo nel 1989 per la loro sopravvivenza.

Il comunismo aveva fallito nell'intento di tutelare l'unità della Jugoslavia. E ora, Ora la Serbia era in pericolo. Ma chi erano per davvero questi nemici di cui Milošević parlava?

Il 1989 fu un anno particolare. A novembre il muro di Berlino sarebbe crollato e con esso diversi regimi comunisti in tutta Europa. Nei due anni successivi l'Unione Sovietica si sarebbe dissolta e, in una Jugoslavia colpita da una forte crisi economica, Il comunismo e il federalismo venivano già contestati e associati a corruzione e malagestione. La denominazione comunista dei partiti al governo era diventata più che altro una bandiera priva di significato, ma questo non soltanto in Serbia.

Facciamo qualche passo indietro. Dall'inizio degli anni 80, in Slovenia, l'elite comunista aveva favorito l'emergere di diversi movimenti sociali e di un largo campo pro-democrazia, il cui principale sostenitore era il nuovo presidente del Partito Comunista sloveno, il 45enne Milan Kucan. Questa democratizzazione aveva un secondo fine. Nell'87, a pochi mesi di distanza dalla pubblicazione del memorandum SAMU in Serbia, la rivista anticomunista slovena Nova Revja rilasciò il suo numero, intitolato Contributi al programma L'Ambito.

nazionale sloveno. Gli articoli contenuti in questa pubblicazione affermavano che gli sloveni avrebbero beneficiato da un'eventuale secessione della Jugoslavia, federazioni in cui erano in realtà penalizzati perché, secondo loro, si trovavano a sostenere economicamente delle repubbliche sottosviluppate. Questa tesi, sostenuta da Kucan, andava in direzione opposta alle idee di Milojevic.

Mentre Kucan riteneva che Milošević stesse tradendo gli ideali di Tito, Milošević dal canto suo credeva che Kucan stesse minacciando l'integrità della Jugoslavia. Non a caso, quando Belgrado emendò la Costituzione serba per annettere Vojvodina e Kosovo nell'89, circa due mesi dopo, il Partito Comunista di Ljubljana propose di includere all'interno della Costituzione slovena il diritto alla secessione e di tenere in tutto il paese delle elezioni libere. Le posizioni slovene vennero ben presto abbracciate da un'altra Repubblica.

quella croata, laddove la posta in gioco era ancora più alta. A differenza della Slovenia, la Croazia ospitava una folta minoranza serba, pari a circa il 17% della popolazione, che abitava per lo più nella Krajina, l'ex frontiera militare arsburgica. Come ricorderete, la narrativa di Milojevic sosteneva che i serbi croati, al pari dei serbi kossovari, fossero a rischio genocidio, considerando lo scuro passato del governo di Ante Pavelic e di Jasenovac. Di converso il nazionalismo croato di matrice cattolica vedeva la comunità serba come elemento destabilizzante. E a farsi portavoce di questa retorica, proprio nel 1989, fu l'Unione Democratica Croata, partito conservatore e nazionalista guidato da un ex dissidente politico, ligazionista del genocidio serbo durante l'occupazione nazifascista, Franjo Tudjman.

Era inevitabile che in breve tempo le diverse vedute di Serbia, Croazia e Slovenia sarebbero andate a scontrarsi. Nel 1990 i rappresentanti sloveni e croati proposero, in seno al congresso federale del Partito Comunista Jugoslavo, di trasformare la federazione in una confederazione multipartitica, dove ogni repubblica fosse indipendente. I delegati serbi, montenegrini, kosovari e voevodini, ideologicamente schierati con Milošević, ovviamente si dissero contrari.

Con la scusa di voler proteggere tutti i serbi sparsi per i Balcani, infatti la Serbia Voleva rendere la Jugoslavia a suo personale dominio. Lo dimostra il fatto che Milošević era arrivato a sostenere la possibilità di scorporare le regioni a maggioranza serva di Croazia e Bosnia-Herzegovina e di unificarle addirittura a Belgrado. Tuttavia, Slovenia e Croazia decisero comunque di svolgere delle elezioni, dalle quali emersero vincitrici proprio quelle fazioni separatisti guidate rispettivamente da Milan Kucan e Franjo Tudjman.

In altre parole, nel 1990 la Jugoslavia era già un feticcio, un vessillo diventato straccio. E questo a Milošević e ai suoi sostenitori non andava affatto a genio. Nei mesi successivi al congresso, la Croazia vietò la scrittura cirillica serba, in favore dell'utilizzo esclusivo di quella croata latina.

Questa misura incontrò l'opposizione dura del neonato Partito Democratico Serba, una formazione politica composta da serbo-croati e guidata da tale Milan Babic. Babic? Rifacendosi alla simbologia dei cetnici, chiedeva invece a gran voce che l'esercito jugoslavo intervenisse in sostegno della comunità serba di Croazia. L'appello non rimase inascoltato.

Qualche settimana dopo, Belgrado ordinò il disarmo della difesa territoriale croata, ovverosia il distaccamento croato dell'esercito jugoslavo. Ma le divisioni a maggioranza serba non furono interessate da questa misura. Il Partito Democratico Serba colse la palla al balzo e, dall'agosto del 1990 fino alla metà del 1991, Incoraggiò rivolte e posti di blocco lungo i confini croati con Bosnia-Herzegovina e Serbia, dove abitavano le minoranze serbe dei due stati.

In quest'arco di tempo, le milizie affiliate a Babic occuparono e dichiararono autonome tre aree in Dalmazia, Slavonia e Krajina. Zagabria tentò di ristabilire la propria autonomia, ma il PDS, il Partito Democratico Serba, sostenuto dall'esercito jugoslavo, si lanciò in battaglia nella primavera del 91. L'apice delle ostilità si verificò a Borovoselo. In Slavonia, dove le milizie serbe massacrarono 12 poliziotti croati. Di fronte all'eventualità di farsi divorare dall'interno, il 25 giugno 1991, la Croazia dichiarò la propria indipendenza dalla Jugoslavia e la Slovenia seguì a ruota. Milošević, che di fatto controllava la presidenza della Jugoslavia, reagì immediatamente in difesa dell'autorità federale.

In un primo momento, il 27 giugno, l'esercito jugoslavo lanciò un'invasione totale della Slovenia. La comunità europea, antenata dell'Unione Europea, che temeva l'ampliamento di questo conflitto intervenne come mediatrice. Dopo soli dieci giorni di combattimenti a bassa intensità che causarono comunque decine di vittime, il 7 luglio 1991 Iugoslavia e Slovenia seglarono il Trattato di Brioni. Con questo accordo, la Slovenia poté dirsi uno Trattato indipendente a tutti gli effetti.

Ora, potreste legittimamente chiedervi perché alla Slovenia sia stata concessa così facilmente la secessione. Di primo acchito si potrebbe dire che in Slovenia risiedeva Una minoranza serva trascurabile, che quindi Milošević non avesse alcun interesse effettivo nel proseguire le ostilità. E questo è vero. Non a caso, nel settembre del 91, anche la Macedonia, composta principalmente da macedoni ortodossi, avrebbe dichiarato l'indipendenza, stavolta senza alcuna ripetizione.

Percussione. Bravissima Macedonia. Dietro alla scelta di lasciare andare Slovenia e Macedonia ci fu un altro calcolo, ovvero se prima c'erano dei dubbi, ora era chiaro che i confini della Jugoslavia potevano effettivamente venire alterati.

Ciò significava che la Jugoslavia a trazione serba poteva dedicare tutti i suoi sforzi a contro la Croazia per assorbire le sue regioni a maggioranza serba. L'esercito jugoslavo intensificò le proprie operazioni in Slavonia e Krajina e con l'aiuto delle forze del Montenegro invase la Dalmazia e assediò Dubrovnik. La strategia dell'esercito serbo-jugoslavo consisteva nell'entrare in cittadini e villaggi, scacciare gli abitanti croati, bruciare le loro proprietà e distruggere simboli religiosi cattolici.

Di tutta risposta, la neonata Guardia Nazionale Croata, equipaggiata con armi rubate all'esercito jugoslavo, rispose tardi all'avanzata, soltanto nel settembre 1991. A novembre le truppe jugoslave si impossessarono di Vukovar e uccisero sommariamente più di 200 tra militari e civili croati. Con una Croazia a picco? Il 19 dicembre 1991 Babic dichiarò la nascita della Repubblica Serba di Krajina. Questo stato fantoccio, slash spina nel fianco della Croazia, Non passò inosservato, e anzi, destò le attenzioni del massimo organo di governo internazionale.

Eccola qui, l'ONU. Agli sgoccioli del 91, l'inviato speciale del segretario generale ONU, Cyrus Vance, elaborò un piano per il cessato il fuoco, e lo presentò come prima cosa a Milošević. Il leader serbo lo accettò, perché in realtà il cosiddetto piano Vance gli avrebbe dato un doppio vantaggio.

Primo, far riprendere fiato all'esercito jugoslavo, e secondo, vedere riconosciute le conquiste territoriali fatte fino a quel momento. e dunque vede riconosciuta anche la Repubblica Serba di Krajina. Avete capito bene. Un capolavoro.

Il piano Vance venne implementato il 2 gennaio del 92, a Sarajevo, in Bosnia-Herzegovina, anche dalla Croazia di Tudjman, contento di mettere in pausa il massacro delle sue truppe. Al cessare il fuoco, seguì l'arrivo della United Nato Protection Force, una forza di peacekeeping composta da 15.000 uomini. che si sarebbe dovuto occupare di garantire la pace nelle cosiddette zone protette, site all'interno della Repubblica Serba di Krajina. So bene a cosa state pensando. È un'evoluzione di eventi che più che un climax assomiglia ad un anticlimax.

Un cessate il fuoco precario, che non risolveva affatto la questione dell'indipendenza croata e che, soltanto all'apparenza, soddisfaceva Milošević ai suoi. Ma al puzzle jugoslavo mancava chiaramente un tassello. E questo tassello si chiama Bosnia-Herzegovina. Tra le sei repubbliche jugoslavi originarie, la Bosnia-Herzegovina era decisamente la più peculiare.

Sotto Tito, le comunità serbe, croate e bosniacche avevano vissuto in relativa tranquillità, l'una accanto all'altra. Già affievolitisi gli ideali comunisti, però, nel 87 si scoprì che il colosso agroalimentare AgroCommerce, da cui dipendeva la quasi totalità dell'economia bosniaca, aveva ottenuto denaro in prestito per centinaia di milioni di dollari, senza mai ripagarlo. Il tutto con la connivenza del Partito Comunista di Sarajevo, che chiaramente aveva guadagnato da questa bella truffa. Lo scandalo portò alle dimissioni dei vertici del partito e, negli anni 90, la conseguente sfiducia verso la classe politica lasciò spazio di manovra a tre partiti nazionalisti, ognuno dei quali rappresentava, anche demograficamente, il i tre principali gruppi etnici del paese.

Il più influente era il Partito di Unione Democratica, fondato dal presidente in carica, Alija Izetbekovic, musulmano e sostenitore della causa bosniaca. Il secondo partito, per consensi, era il Partito Democratico. serbo di Radovan Karasic, nato sulla scorta dell'omonima formazione creatasi in Croazia da Milan Babic.

Il terzo partito, invece, l'Unione Democratica Croata, prendeva il nome dal partito del presidente croato Franjo Tudjman. Con lo scoppio della guerra in Croazia e l'avanzata dell'esercito jugoslavo la situazione si era fatta delicata, per dire un eufemismo. Nel novembre del 91, sott'ordine di Tudjman, l'Unione Democratica Croata proclamò la Repubblica Croata dell'Herzeg Bosnia.

Un territorio autonomo dentro la stessa Bosnia-Herzegovina, il cui fine era quello di tutelare la popolazione croata da eventuali rappresaglie serbe e bosniacche. Tudjman intendeva rispondere a Radovan Karasic. Seguendo le mosse di Babic in Croazia, infatti, Karasic, a sua volta aveva riunito la popolazione serba nel nord e nell'est del paese e nel gennaio del 1992 avrebbe dichiarato la nascita della Repubblica Srpska, un altro stato fantoccio pro Milojevic e quindi pro Serbia. Trovandosi così circondato da Croati e Serbi, il 6 aprile del 1992, Izetbekovic proclamò l'indipendenza della Bosnia-Herzegovina.

La reazione fu durissima. Karasic, che poteva contare su due armate, cioè quella jugoslava e quella srpska, comandata da tale Ratko Mladic, ordinò l'invasione delle aree centrali della Bosnia e pose sotto assedio Sarajevo. Butcher of Bosnia, General Ratko Mladic. You know, your own people and your soldiers, to them you're a great man, you're a hero. To your enemies, you're somebody to be feared and somebody to be hated.

How do you feel about that? Verlo interessantno pitanje. Very interesting question.

In una prima fase del conflitto, i neonati eserciti croato e bosniaco cooperarono contro il nemico comune, ma agli inizi del 1993 il primo iniziò a prendere di mira villaggi e soldati controllati dal secondo. Il popolo di Herzegovina sarebbe stato il più felice se Herzegovina e il resto della Croazia Si è visto che Boban e i suoi amici andavano in conflitto Per scoppiare il comando di Bosnia e Herzegovina Per affrontare la Croazia E'stato chiaro che quel plan sarebbe stato deciso nel marzo del 1991 quando si presume che Milošević e Tudjman si siano incontrati in Serbia per discutere dell'eventuale spartizione della Bosnia-Herzegovina. Di questo esatto dialogo però non abbiamo prove, a parte le confessioni di diversi personaggi incriminati alla fine delle ostilità. Quel che è certo è che nel marzo del 1994 Izetbekovic e Tudjman si sarebbero incontrati a Washington, dove avrebbero concordato di unificare i territori bosniacchi e l'Herzeg Bosnia in un'unica federazione, che proteggesse i cattolici e i musulmani. Infatti c'è da ricordare che la Croazia era in fin dei conti un paese ancora in guerra, per via della presenza della Repubblica Serba di Krajina.

L'accordo di Washington sarebbe stato un momento chiave del conflitto, che però dobbiamo tenere un attimo, come sempre, da parte. Prima di tutto bisogna capire che la guerra è una guerra di un'unità, in Bosnia non fu un conflitto ordinario, ma l'insieme di una serie di operazioni mirate, tutte offuscate dal caos generale. Ogni fazione in campo ambiva a prendere il controllo di città, villaggi ed edifici, così da scacciare gli abitanti di nazionalità diverse dalla propria e magari sostituirli per un'unità di città.

con rifugiati etnicamente affini. Le atrocità commesse nei combattimenti consistevano in deportazioni in campi di concentramento siti all'interno della Repubblica Serbska, distruzione di luoghi e simboli religiosi, stupri di massa, esecuzioni sommarie, sepolture in fosse comuni, torture e massacri, almeno una sessantina durante tutto il conflitto. Insomma, una pulizia etnica in piena regola, di cui tutte le forze in campo si resero colpevoli.

Crimini che non poterono far altro che attirare l'attenzione del mondo intero. Il 31 marzo del 1993 il Consiglio di sicurezza dell'ONU optò per imporre una no-fly zone su tutto il territorio bosniaco. Per garantire il blocco aereo, l'ONU chiese supporto alla NATO.

Chi avviò l'operazione Deny Flight, ad accontrastare l'aviazione serba. Tra maggio e giugno il Consiglio di Sicurezza estese il mandato dell'Umprofor e dispiegò le forze di peacekeeping per salvaguardare sei cosiddette safe areas, la capitale Sarajevo, Zepa, Goraje, Tuzla, Bihac e Srebrenica. Diciamo cosiddette safe areas perché queste in realtà erano ancora controllate dalle milizie filo-serbe ed erano contese dall'esercito bosniaco.

Ancora il 25 maggio La risoluzione 825 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU istituì il Tribunale Penale Internazionale per l'ex Yugoslavia, per cominciare a indagare sulle violazioni di diritti umani commesse fino a quel momento. Questa serie di mosse intraprese dalla comunità internazionale mirava chiaramente a destabilizzare una sola delle parti in conflitto, ovvero la Serbia, ritenuta pienamente responsabile. L'ONU infatti riconosceva come legittimo il governo di Izetbekovic e, non potendo attaccare direttamente Belgrado, Tentò di arginare le forze della Repubblica Serbska, armate tacitamente da Ucraina, Grecia e Israele. L'ipocrisia regnava sovrana, infatti i bosniacchi non erano soli.

Iran, Pakistan, Turchia, Brunei, Malesia e Sudan fornirono tutti armi e denaro all'esercito bosniaco, che poté così contare anche su qualche migliaio di foreign fighter, rinominati mujahideen bosniaci, provenienti principalmente da Afghanistan e Arabia Saudita, e non di rado collegati ad Al-Qaeda. Nell'ottica islamista il conflitto in Bosnia era una jihad, una nuova lotta tra Islam e Occidente. Questo sistema sarebbe stato segretamente appoggiato anche dalla CIA e dagli Stati Uniti. anche sostenitori dell'esercito bosniaco, a cui fornirono addestramento e armamenti.

Il tutto mentre in teoria vigeva un embargo imposto dalle Nazioni Unite. Secondo il politologo Richard James Albright, il contrabbando di armi non fu estraneo nemmeno all'Umprofor, che sotto minaccia e dipendente dalle risorse statunitensi scelse di tacere. A mano a mano l'interesse della Casa Bianca in Bosnia si fece sempre più palese e deciso. Il 28 febbraio del 1994 la NATO, o per meglio dire l'Air Force Americana, abbatté e quattro caccia a Serbia.

alzati sin volo a Bagnaluca, il centro nevralgico della Repubblica Serbska, per aver violato la No-Fly Zone. In aprile, allora, a Lumprofor, non si fece molti problemi a chiedere supporto ai cacci americani per proteggere la safe area di Goraz da un commando serbo. La NATO rispose affermativamente e, per la prima volta nella sua storia, portò a termine un bombardamento aereo. Questo singolo evento merita particolare attenzione per due motivi principali. Prima cosa, che safe areas erano quelle dell'ONU?

Se le stesse forze di peacekeeping avevano chiesto aiuto alla Nato per liberare dalle forze serbe. Seconda e più importante osservazione, bombardando Force la Nato aveva creato un precedente. D'ora in poi infatti sarebbe stata legittimata ad agire. Con le forze di Mladic impegnate a sterminare i bosniacchi sul loro cammino, la Nato compì altri sporadici bombardamenti per tutto il 94 e anche nei primi mesi del 95 contro le postazioni serbe nelle Sejfereas. In risposta a ogni attacco, Mladic sequestrava decine di peacekeepers, strategia che si rivelò vincente per intimidare Stati Uniti e alleati.

Difatti, alla fine di maggio, i bombardamenti subirono una battuta di arresto. L'esercito serbo percepì la cosa non come un segnale di tregua, quanto piuttosto come un segnale per agire. Fu questo il preludio del più famoso atto criminale della guerra in Bosnia, il massacro di Srebrenica. Il 6 luglio 1995 Mladic guidò un battaglione serbo fino alle porte della safe area di Srebrenica. che nei mesi precedenti era stata conquistata dall'esercito bosniaco e trasformata in un'importante base operativa, rifugio per i musulmani fuggiti dalla furia serba.

La difesa della safe area aspettava un contingente olandese dell'Umprofor, il cosiddetto Dutchbat, tuttavia composto da meno di 400 caschi blu ed equipaggiato con armi inadatte ad affrontare l'artiglieria serba. Il colonnello, tale Thomas Karemans, a capo del Dutchbat, richiese quindi il supporto aereo della NATO, che però gli fu negato da Kees Nicolaii. capo di stato maggiore del comando ONU a Sarajevo. Secondo Nicolaii, infatti, con le forze serbe inermi, la NATO si sarebbe comunque rifiutata di agire, a meno che l'Umprofor non fosse stata direttamente coinvolta. Allorché, Karemans istituì dei posti di blocco fasulli per provocare Mladic.

Il comandante serbo abboccò e ordinò l'invasione di Srebrenica. Il 10 luglio Karemans inoltrò quindi la richiesta di supporto aereo. Con sua sorpresa, la NATO rispose 18 ore dopo, inviando due getto-landesi a sganciare una sola bomba, che peraltro sfiorò soltanto un caro armato serbo.

Il Dutchbat fuggì a gambe levate, Mladic poteva entrare indisturbato a Srebrenica. Qui, nella prima metà di luglio, inseguì e fece giustiziare più di 8.000 uomini e ragazzi bosniacchi. Non vi preoccupate, solo lentamente, lentamente, per prima cosa andranno le donne e i bambini Non vi preoccupate, nessuno vi farà niente E i bus e i camion vi saranno spostati a un'altra parte Solo lentamente, senza che ci siano i bambini e le donne Questo massacro mostrò la totale inadeguatezza dell'Umprofur e, complice l'indignazione generale, diede agli States e alla NATO il pretesto per scavalcare l'ONU e lanciare l'offensiva finale.

Ricordate gli accordi di Washington? Ecco, da allora il Ponte aveva fatto confluire armi di contrabbando, le stesse che provenivano dal Medio Oriente, fino a Zagabria, con l'assenso di tujman. Gli equipaggiamenti circolarono anche in tutta la federazione croato-bosniaca, finché, sotto suggerimento dell'ambasciatore americano in Croazia, tale Peter Galbraith, Tudjman e Izetbekovic si accordarono per attaccare insieme la Repubblica Serba di Krajina con 130.000 uomini. Nei primi giorni dell'agosto 95 l'operazione tempesta dissolse completamente lo stato fantoccio filo-serbo. In agosto la NATO, in accordo con l'ONU, lancia l'operazione Deliberate Force.

Così, in meno di un mese di bombardamenti, la NATO costrinse Mladic e Karasic a sedersi al tavolo delle trattative in quel di Dayton, Ohio, Stati Uniti. Il 14 dicembre 1995, Izetbekovic, Tudjman e Milojevic siglarono il trattato di pace di Dayton. Questo accordo prevedeva il riconoscimento ufficiale della federazione di Bosnia-Herzegovina, composta da bosniacchi e croati, ma anche della Repubblica Serbska, a maggioranza serba.

L'attuale Bosnia-Herzegovina mantiene tuttora questo assetto, anche se ci vollero anni per normalizzare le relazioni tra le due entità federate. Croazia e Bosnia-Herzegovina potevano dirsi indipendenti. Tra le guerre jugoslave quella bosniaca è stata sicuramente la peggiore, ma non l'ultima. Perché infatti la Jugoslavia continuava effettivamente a esistere e Milošević era ancora in circolazione.

Restava una sola questione da dirimere. La questione che aveva dato avvio alla dissoluzione della Jugoslavia. Lo status del Consul. Al termine del conflitto Bosnia con la Jugoslavia o perlomeno quello che ne rimaneva, non se la stava passando affatto bene. La crisi economica, unita alla coscrizione obbligatoria, fece emergere diversi movimenti critici nei confronti di Milošević, sia in Serbia che in Vojvodina e Montenegro.

L'opposizione più dura, naturalmente, arrivava dal Kosovo. Qui, dopo aver revocato l'autonomia, i collaboratori di Milošević avevano infatti messo al bando la lingua ai Medi Albanesi. licenziando almeno 15.000 dipendenti pubblici e spedendo in Kosovo circa 16.000 esuli serbi fuggiti dalle guerre in Croazia e Slovenia, come a voler colonizzare la regione. Di fronte a simili ingiustizie, nel 1993 qualche centinaio di indipendentisti albanesi-kosovari diede vita all'UCK, sigla che sta per Esercito di Liberazione del Kosovo.

Nel corso del tempo l'UCK sarebbe arrivato a sostenere l'idea della Grande Albania. una sorta di Grande Serbia, ma per albanesi. Questa milizia rimase pressoché nell'ombra, in attesa del momento giusto per agire.

Quel momento si presentò alla firma del Trattato di Dayton. Percependo la posizione antiserva degli Stati Uniti, agli inizi del 1996 l'UCK presi di mira a stazioni di polizia e ufficiali jugoslavi in Kosovo, iniziò a ottenere il controllo di piccoli villaggi scacciando e uccidendo le minoranze serbe ai ripresenti, e nel 1997 uscì allo scoperto. Lo scopo dell'UCK, sebbene non dichiarato, era evidente. forzare l'intervento di Milošević per poi ottenere supporto dall'estero, magari dalla stessa NATO.

Complici le tensioni interne a Belgrado, tutto andò secondo i piani. Nella primavera del 1998 un ristrutturato esercito jugoslavo condusse una serie di operazioni di cosiddetto antiterrorismo contro alcuni villaggi controllati dall'Uck, in realtà ammirati a uccidere i leader dei miliziani e le loro famiglie. Entro l'autunno le azioni jugoslave causarono la fuga di circa 200.000 albanesi kosovari. Parallelamente, l'UCK cominciò a ricevere fondi dalla folta diaspora albanese in Europa e negli Stati Uniti, ma anche da diversi uomini d'affari residenti proprio in Albania.

Nel tempo è stato supposto che l'UCK si sia autofinanziato tramite il traffico di droga e sia stato addestrato anche dalla CIA, ipotesi che, tra l'altro, furono diffuse inizialmente dalla propaganda di Milošević. Quello che sappiamo con certezza, comunque, è che anche l'UCK si macchiò di crimini efferati contro la comunità serba. Entro la fine del 1998, i miliziani albanesi superarono le 10.000 unità e reclamarono il controllo del 40% del Kosovo.

Il 15 gennaio del 99 un commando serbo assassinò 45 albanesi kosovari nel villaggio di Racak, nel Kosovo centrale. Fu allora che la NATO, per la prima volta, minacciò di bombardare direttamente la Jugoslavia. Questo qualora Milošević non fosse sceso a patti.

La situazione non era affatto semplice perché, anche questa volta, non c'erano in gioco soltanto gli interessi di Serbia e Kosovo. Mesi prima Milošević era stato intercettato dall'allora presidente russo, Boris Yeltsin, come scrisse il New York James, per un colloquio da slavo a slavo. Benché vicino al popolo serbo, anche dal punto di vista religioso, Yeltsin temeva che un'escalation in Kosovo avrebbe spinto gli Stati Uniti a intervenire direttamente, e non più per il semplice tramite della NATO. Le paure di Yeltsin non erano mal riposte, anche perché nel frattempo Bill Clinton aveva dichiarato la situazione in Jugoslava una questione di sicurezza nazionale. Non che Clinton avesse a cuore la causa kosovara, anzi, se ne fregava per dirla molto semplicemente, piuttosto gli interessava di trovare una scusa per eliminare Milošević e portarsi così tutto il blocco balcanico dalla parte dell'occidente.

Per questo motivo, tra febbraio e marzo del 99, la Nato propose alla Jugoslavia e alla Russia l'accordo di Rambouillet, elaborato nell'omonimo Castello Francese, che prevedeva che il Kosovo diventasse una provincia autonoma all'interno della Serbia, sotto diretta tutela della Nato. Lo stesso Henry Kissinger, non certo un angelo della pace, dichiarò che secondo lui Rambouillet era in realtà una provocazione, una scusa per cominciare a bombardare. Come ci si aspettava, Milošević si disse categoricamente contrario all'accordo. Questo rifiuto, fatto passare come un affronto, una dimostrazione di superbia, segnò l'inizio della sua fine. Senza prima ricevere approvazione dal Consiglio di sicurezza dell'ONU, il 24 marzo 99 la NATO gli ad avvio all'operazione Allied Force e per tre mesi e mezzo con l'aiuto di tutti i Paesi membri lanciò quasi 40.000 attacchi contro industrie e obiettivi civili e militari in Kosovo, Montenegro e Serbia, persino nella capitale Belgrado.

La maggior parte dei bombardamenti partiva dalle basi NATO in Italia, una su tutte quella di Aviano, e da decine di portaeri rispiegate lungo la costa adriatica. Nel corso delle operazioni, le forze nord-atlantiche utilizzarono circa 30.000 munizioni all'uranio impoverito, le cui radiazione si ritiene sia una causa, ancora oggi, di tumori e malattie tra la parte di avanti e di fuori. popolazione kossovara e serba.

A maggio Milošević fu incriminato dal Tribunale Penale Internazionale per l'ex Yugoslavia. Era la prima volta che un capo di Trattato veniva accusato di crimini di guerra. A quel punto la Russia perse qualsiasi interesse nel difendere la causa serba. Trovandosi di fronte a un'urmai imminente invasione via terra, Milošević si arrese. L'11 giugno, con l'autorizzazione ONU, la NATO dispiegò la cosiddetta Kosovo Force, un contingente che da quel momento in poi avrebbe vigilato sul Kosovo, diventato ora una regione amministrata dall'ONU dentro i confini serbi.

L'occupazione del Kosovo segnò una crepa insanabile nel barcollante apparato jugoslavo. Milošević fu effettivamente detronizzato soltanto nell'ottobre del 2000 con la cosiddetta rivoluzione dei bulldozer. dopo che tentò di bloccare l'elezione a presidente d'Italia i Bosnia Kostunica. La campagna elettorale di Kostunica, che era il leader dell'opposizione serba, fu finanziata direttamente dagli Stati Uniti con decine di milioni di dollari e strutturata con l'aiuto a margine della CIA. Il 1 aprile 2001 il non più invincibile Milošević fu arrestato per poi venire processato a Laia, dove nel frattempo era stato accusato di crimine di guerra anche in Croazia e Bosnia.

A questo punto rimaneva ancora un nodo da sciogliere, un effetto Indesiderato dei bombardamenti della Nato in Kosovo. Infatti, l'UCK fino albanese era ancora in circolazione. Reinvigorito dalla sconfitta di Milošević, l'UCK aveva continuato per tutto il 99 e il 2000 a perseguitare la minoranza serba in Kosovo, causando però la fuga di migliaia di albanesi verso i paesi più vicini, vale a dire Albania e Macedonia. La Macedonia, l'unica repubblica ad essersi distaccata pacificamente dalla Jugoslavia, nonché paese di per sé multietnico, ospitava già un'importante minoranza albanese, pari al 25% della popolazione totale. Minoranza albanese, che, manco a farlo apposta, veniva discriminata, a livello linguistico e istituzionale, dalla maggioranza macedone, quindi potete già immaginare cosa accadde.

Nel gennaio del 2001, facendo leva sull'idea della grande Albania e galvanizzati dal recente conflitto in Kosovo, l'UCK fomentò una ribellione in Macedonia. Ben presto questa insurrezione, che ve lo dico a fare, si trasformò in una guerriglia etnica tra albanesi musulmani e macedoni ortodossi. risolta soltanto dal riconoscimento da parte di Scopie dell'albanese come seconda lingua ufficiale e anche dall'integrazione della minoranza albanese dentro le istituzioni pubbliche macedoni.

Il mancato intervento di qualsiasi attore internazionale dimostrò il totale disinteresse nei confronti. della situazione macedone, e anche il desiderio di dimenticare i Balcani dopo 10 anni estenuanti di guerre. La Repubblica Federale di Jugoslavia, nota come Serbia Montenegro, rimase in piedi fino al 2006, quando Podgorica dichiarò la propria indipendenza e, di converso, la Serbia divenne una Repubblica parlamentare. A più di un secolo dalla sua teorizzazione, dopo 17 anni e 140.000 cadaveri dopo il discorso del Gazimestan, l'idea di una terra degli slavi meridionali era definitivamente morta. Alla nostra infinita storia, che abbiamo raccontato oggi, però, manca ancora un ultimo capitolo.

Infatti un tale caos non può, inevitabilmente, che lasciare dietro di sé un'eredità complessa, difficile da digerire. Di fronte a tutte le mostruosità di cui abbiamo parlato, verrebbe istintivamente da chiedersi di chi è la colpa. A questa domanda, in teoria, avrebbe dovuto rispondere il Tribunale Penale Internazionale per l'ex Yugoslavia.

Dalla sua istituzione, nel 1993, più di 200 persone, tra investigatori, traduttori, avvocati e giudici, ascoltarono i racconti di centinaia di sopravvissuti e testimoni di violenze di vario genere, ed esaminarono munizioni lasciate a terra, villaggi distrutti, fosse comuni e persino campi di concentramento. Il tribunale mirava a perseguire quattro tipi di reato. Infrazione della Convenzione di Ginevra del 49, che la Jugoslavia stessa aveva sottoscritto, crimini contro l'umanità, crimini di guerra e genocidio. In sostanza si trattava di una Norimberga jugoslava.

Ci vollero tre anni prima di far partire i processi. I primi a cadere furono alcuni leader e miliziani del Partito Democratico Serba di Bosnia e della Repubblica Serbska, responsabili di aver creato e guidato i campi di concentramento di Prijedor e Omarska, in cui venivano rinchiusi, torturati e uccisi. sia bosniacchi che croati. Vi risparmio le immagini. Poi sono arrivate le condanne a diversi esponenti della Repubblica Croata di Herzeg Bosnia e della Repubblica Serba di Krajina.

Milan Babic, ad esempio, è stato condannato nel 2004 per crimini di guerra ed è morto suicida in cella a Laia due anni dopo. Anche dopo aver scoperto cosa è successo, ho calato. Ancora più, ho continuato la mia attività e, attraverso le mie attività, ho diventato responsabile per le cose inumane che hanno fatto i cittadini.

La paura che sento è la paura con cui devo vivere l'estate di vita. Nei suoi ben 24 anni di lavoro, fino al dicembre 2017, il Tribunale Penale Internazionale ha eseguito 90 condanne, per la maggior parte contro politici e militari serbi o filoserbi, resisi partecipi di quella che è stata definita una impresa criminale congiunta. A Radovan Karasic, nel 2016, sono stati combinati 40 anni di prigione per 10 capi di accusa, tra cui quello di genocidio, in riferimento al massacro di Srebrenica nel 1995. A Ratko Mladic, l'esecutore materiale del massacro, è toccato l'ergastolo.

Per avere un'idea dei crimini commessi dalle milizie serbe e filo serbe durante la guerra jugoslave, basta guardare le accuse mosse contro il capo supremo, Slobodan Milošević. Genocidio. Deportazione, persecuzione per motivi politici, razziali e religiosi, trasferimenti forzati, tortura, reclusione illegale, distruzione di edifici storici e religiosi, saccheggio e atti indiscriminati ai civili.

Sono soltanto i principali dei 66 capi di imputazione indirizzati a Milošević, per i quali, tuttavia, non è mai stato condannato. Infatti nel 2006, l'ex leader serbo già ammalato, morì di infarto nella sua cella dell'Cia, sollevando una marea di ipotesi complottiste. Lo stesso Milošević, nel corso del processo a suo carico, ha affermato di essere stata vittima di un accanimento.

di una congiura tedesco-ostitunitense per cancellare la Serbia dalle mappe e che anche la NATO si era macchiata dei crimini di guerra. Milošević è stato senza dubbio un mentecatto, un uomo che ha consapevolmente gettato benzina sul fuoco dell'odio, un omunculo alla ricerca di un potere smisurato, un omunculo che non ha minimamente mai avuto interesse nel tutelare la popolazione serba. Se il tribunale per l'ex Yugoslavia si è concentrato su ufficiali politici serbi e filoserbi è perché in primis sono stati loro a causare morte e distruzione, a portare avanti la maggior parte dei crimini di guerra. Benché legittime, però, le condanne del Tribunale sembrano aver rispecchiato degli interessi esterni alla penisola balcanica.

Nel 2021, Casa Del Ponte, la procuratrice capo del Tribunale che in prima persona ha condotto l'accusa contro Milošević, ha affermato che gli Stati Uniti non volevano esaminare i crimini di guerra commessi dall'UCK a Kosovaro. La stessa segretaria di Trattato americana, Madeleine Albright, esatto, la stessa che disse che, a seguito dell'invasione USA, le morti di mezzo milione di iracheni erano worth it, meritevoli, le aveva intimato di rallentare le indagini su Ramush. Krajina, ex ufficiale dell'UCK e futuro primo ministro kossovaro. Nel 2008 Del Ponte è arrivato a sostenere, dopo aver ricevuto tutta una serie di testimonianze, che i miliziani albanesi fossero impegnati nel traffico di organi, estratti dai corpi dei loro prigionieri serbi.

In generale, i più critici nei confronti del Tribunale per l'ex Yugoslavia ritengono che sia stato fatto di tutto per oscurare i reati delle forze supportate dalla Nato, come l'esercito bosniaco e l'UCK, e per far ricadere ogni colpa soltanto sulla Serbia. Serbia che era legata alla Russia. Se dovessimo trovare una via di mezzo tra le due posizioni, cioè il rispetto dei processi internazionali e la critica all'ingerenza straniera, potremmo dire che, senza dubbio, la pace nella ex Jugoslavia è stata calata dall'alto, indirizzata verso un progetto ben stabilito. Nel 2008 il Kosovo ha dichiarato la propria indipendenza dalla Serbia. Belgrado ha preso atto della decisione soltanto nel 2013, togliendo le proprie istituzioni sul territorio, Tuttavia, senza riconoscere la sovranità di Pristina.

Ad oggi il Kosovo è riconosciuto come stato assistante da circa 100 membri dell'ONU, ma non da paesi europei come la Spagna, che ne impediscono di fatto l'ingresso nella UE. La KFOR è ancora attiva e conta un personale di circa 4.000 uomini. 1.300 sono italiani, che formano il contingente più grande dell'intera missione.

Nel frattempo, Slovenia e Croazia sono entrate a far parte dell'Unione Europea e anche della NATO. Al Trattato Nord-Atlantico hanno diritto pure Montenegro e Macedonia del Nord. con la Bosnia-Herzegovina che tratta da anni un suo ingresso. Soltanto la Serbia, dove negli ultimi vent'anni si sono alternati governi filo-occidentali e filo-russi, al momento non sembra interessata ad avere relazioni con la NATO. O perlomeno questo è quello che sostiene l'attuale presidente, Alessandro Pacic.

Nonostante un generale avvicinamento all'Occidente, l'area ex-Iugoslava non può certo definirsi pacificata. In Croazia si viene arrestati se si definisce Franjo Tudjman, morto nel 99, un criminale di guerra. Nonostante nel 2017 il Tribunale per la ex-Iugoslavia abbia dichiarato Tudjman e alcuni ufficiali dell'ERZEK Bosnia colpevoli di persecuzione nei confronti di bosniachi. In Kosovo e Macedonia del Nord le tensioni comunitarie non si sono mai sopite, con l'UCK ancora attivo e Hashim Pacic, ex leader politico dell'UCK nonché ex presidente del Kosovo, che è sotto accusa per essere stato a conoscenza di uccisioni e torture nei confronti delle comunità serbe. In Bosnia e Herzegovina, un paese ormai afflitto da una recessione e crisi economica grave, si parla ancora di discriminazioni sistemiche.

Potremmo continuare a discutere per ore della delicata situazione politico-sociale dei Balcani. Potremmo continuare a discutere di quanto la dissoluzione della Jugoslavia abbia impattato su questi paesi, di quanto possa essere stato il comunismo a farli marcire o meno, ma qui ora noi non possiamo esimerci dall'individuare il colpevole di tutte le evidenze, dei massacri, dei genocidi delle guerre jugoslave. Odio è un termine troppo generico, e questo colpevole ha un nome ben specifico, si chiama nazionalismo. Già vi sento pronti a insultarmi e a dire che sono...

troppo politico, che sono una zecca comunista nostalgica di Tito, o peggio ancora un neoliberista. Voglio soltanto farvi ragionare su una frase che si ripete costantemente quando le cose vanno male. È colpa degli altri. Perché chi suole lamentarsi punta sempre il dito sugli altri, senza fare introspezione su di sé.

Ecco, chi è che instilla questo tipo di idee? Anzitutto le classi politiche incapaci. che devono trovare sempre una scusa per la loro incompetenza, un modo per avere consensi.

E quando l'odio viene sacerbato per giunta in una regione dove il conflitto è stato quasi da sempre la regia, ecco che si va a rivangare sul passato per modificare il presente e si giustificano le peggiori schifezze in nome del benessere della propria comunità. E sapete perché vi parlo di tutto questo? Perché a venir presi di mira durante le guerre jugoslave Non sono stati soltanto quei gruppi di persone ritenuti degni di costruire una loro nazione, ma anche tutti quei popoli che gli stessi iugoslavi hanno ripudiato per anni.

Romanì, che noi chiamiamo Rom, Balacchi ed Ebrei, sono soltanto questi alcuni dei gruppi vittime collaterali delle forze serbe, dell'UCK e di chi per loro, dimenticati del tutto dalla narrazione delle guerre iugoslave. I processi del tribunale per l'ex Iugoslavia li citano, certo, ma del loro eccidio si sa poco o nulla. Verrebbe da dire che è passato troppo poco tempo per poter analizzare a pieno i conflitti yugoslavi e i loro effetti. Eppure questo poco tempo ci può aiutare a capire che la disgregazione della Yugoslavia non è stata altro che lo specchio del nostro presente, o meglio, il nostro futuro meno auspicabile. Quello che dobbiamo evitare sempre a tutti i costi.

Per aspera ad astra. Prima di chiudere vorrei ringraziare ancora una volta Conflict of Nato per aver sponsorizzato questo video, il più lungo mai visto sul canale. Vi ricordo che l'offerta a cui potete accedere cliccando sul link in descrizione, cioè 13.000 unità d'oro da spendere in gioco più un mese di abbonamento premium gratis è valida soltanto per 30 giorni.

Ma ricordatevi, la guerra è tutto, purché un gioco.