«Mi son visto recapitare un tuo libro, che hai composto nel nostro volgare al tempo della giovinezza. Gli ho dato un’occhiata, come fa il viaggiatore frettoloso che si guarda intorno qua e là senza fermarsi. Mi sono divertito nello scorrerlo; e se mi sono imbattuto in qualche eccesso di licenziosità, ti scusavo per l’età che avevi allora.» In una lettera inviata all’amico Giovanni Boccaccio nel 1373, Francesco Petrarca esprime il suo giudizio sul «Decameron», il capolavoro dello scrittore di Certaldo che non gli ha suscitato particolare entusiasmo. Com’è noto, Petrarca dava molta più importanza al latino, perciò spinse Boccaccio a scrivere opere colte in quella lingua, cosa che fece nell’ultima parte della sua vita. Petrarca tradusse in latino anche la novella di Griselda, che chiude il «Decameron». I due scrittori si erano conosciuti nel 1350, quando Petrarca era diretto a Roma per il Giubileo e soggiornò a Firenze, dove incontrò appunto Boccaccio. Questi lo ammirava come scrittore, e aveva iniziato una corrispondenza epistolare con lui prima di conoscerlo. Petrarca era già un letterato noto e apprezzato, avendo ricevuto l’incoronazione poetica nel 1341, in una solenne cerimonia in Campidoglio. Boccaccio aveva scritto varie opere, ma lo vedeva come un modello e un maestro cui ispirarsi. Già anni prima, intorno al 1339, Boccaccio aveva indirizzato una lettera a un imprecisato uomo assai dotto, residente allora ad Avignone. Si trattava probabilmente di Petrarca, di cui aveva avuto notizia da padre Dionigi di Borgo San Sepolcro. La lettera è scritta in latino in forma di esercitazione retorica, ed è nota col titolo di «Mavortis miles», «soldato di Marte», appellativo con cui Boccaccio definisce Petrarca in quanto intellettuale che si batte contro i vizi del mondo. Il futuro autore del «Decameron» risiedeva allora a Napoli, e nella lettera parla dell’amore per una donna che potrebbe essere la Fiammetta di cui spesso parla nei suoi testi. Questo amore lo ha reso infelice, e un amico lo ha spinto a scrivere a Petrarca per avere un conforto. L’epistola definisce l’autore del «Canzoniere» come un illustre maestro in cui Boccaccio ripone grande fiducia, e si chiude con la richiesta di inviargli un sonetto di tema amoroso. L’identificazione tra il destinatario della lettera e Petrarca è quasi certa. Dopo l’incontro del 1350, i due scrittori diventarono amici e si scambiarono diverse lettere, concernenti per lo più temi letterari. Come detto, Boccaccio fu spinto da Petrarca a dedicarsi ad opere colte in latino, raccogliendo l’invito. Fu autore infatti della «Genealogia degli dèi pagani», un’operetta erudita sulla mitologia classica, e di altri scritti minori sempre di tipo compilativo. Boccaccio scrisse in latino anche una biografia celebrativa dell’amico Petrarca, risalente al 1342. Essa è modellata sulla base delle biografie classiche, e presenta Petrarca come letterato illustre e famoso nel mondo, esempio di virtù cristiane e moderazione. Tale ritratto corrisponde in gran parte alla visione che l’Umanesimo avrà dello scrittore. Nel 1351 Boccaccio raggiunse Petrarca a Padova come inviato del Comune fiorentino, per offrirgli una cattedra presso lo Studio della sua città, che però Francesco rifiutò. In seguito, Petrarca si trasferì a Milano presso i Visconti, entrando al loro servizio. Ciò rientra nell’attività di uomo di corte che Petrarca ricoprì in diverse fasi della sua vita, anche se la collaborazione coi Visconti suscitò la disapprovazione degli amici di Firenze, poiché la città era in contrasto con la signoria milanese. Il fatto provocò uno screzio anche con Boccaccio, allentando per breve tempo l’amicizia tra i due. I rapporti dovettero però riallacciarsi presto, come testimoniano successivi incontri tra i due a Milano e Venezia, e poi lo scambio di varie lettere. In una di queste, inclusa nella raccolta delle «Familiari», Petrarca si difende dall’accusa in base alla quale egli disprezzava la grandezza di Dante, il poeta di cui Giovanni era grandissimo estimatore. Petrarca elogia Dante, ricordando che il padre fu esiliato da Firenze come lui. In un’altra epistola delle «Senili», Petrarca rimprovera Boccaccio perché l'amico soffriva, ritenendosi inferiore come scrittore a lui e a Dante. Francesco afferma che Giovanni in realtà gli è quasi alla pari, e non dev'essere così superbo da aspirare al primato assoluto. Nella lettera, Petrarca dissuade Boccaccio dal proposito di distruggere le sue opere volgari, così come era tentato, poiché non apprezzate dal pubblico della sua epoca. Ciò dipende non dalla qualità degli scritti, ma dall'ignoranza dei tempi che ha toccato anche il «Canzoniere». La morte di Petrarca, avvenuta nel luglio del 1374, colpì molto Boccaccio, che gli dedicò idealmente un sonetto in cui lo descriveva nello splendore del Paradiso, in compagnia di altri illustri poeti tra cui Cino da Pistoia e Dante Alighieri. Il compianto per l’amico morto affiora anche in una lettera dello stesso anno, indirizzata al genero ed esecutore testamentario di Petrarca, in cui Boccaccio celebra la figura del grande poeta e confessa di essere stato suo fedele seguace. Giovanni lo seguì di lì a poco, morendo nel dicembre del 1375. Lo scrittore di Certaldo fu comunque considerato una delle «tre corone» fiorentine del Trecento, la cui grandezza era accostata a quella di Dante e dell'amico Petrarca. I due letterati diventeranno anzi modello di lingua nel Cinquecento, specie grazie a Pietro Bembo che indicò il loro volgare come il migliore da usare nelle opere letterarie. Ciò nel trattato «Prose della volgar lingua», pubblicato nel 1525. In conclusione, ricordiamo i diversi manoscritti che i due autori si scambiarono in vita, tra cui un codice di Plinio il Vecchio contenente una descrizione del fiume Sorga e di Valchiusa, in cui è presente un disegno realizzato forse dalla mano di Boccaccio.