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Evoluzione dei Comuni Italiani nel 200

Nella prima metà del 200 i comuni italiani vissero, oltre all'avvento dei podestà, due importanti congiunture. L'una esterna, vale a dire il nuovo scontro col potere imperiale, questa volta proveniente da sud e guidato dalla personalità forte di Federico II. L'altra interna, vale a dire il costituirsi dentro le città di un comune popolare che intendeva contrapporsi ai privilegi dell'aristocrazia consolare e delle elite emergenti che ad essi si erano associate. Il cosiddetto popolo era quella parte della cittadinanza, organizzata in sue peculiari forme territoriali o corporative, che partecipava alla vita politica coalizzando interessi e gruppi familiari, soprattutto mercantili e artigiani, di formazione relativamente recente e per lo più estranei alla gestione del potere che vi era stata nell'età dei consoli e dei podestà di estrazione locale.

Comunque il ceto dirigente, che si era amalgamato nell'ultima età consolare e nella prima età potestarile, cioè fra i 1170 e i 1220, mantiene fino alla metà del 200 una prevalenza con le proprie tradizioni militari e cavaleresche. Verso la metà del secolo il popolo cittadino esprime precise richieste di compartecipazione e di attribuzione di uffici, e verso gli anni settanta la compartecipazione divenne spesso egemonia popolare, con la costituzione di governi a netta prevalenza popolare. In passato si è spesso affermato che questi organismi popolari andavano identificati con le organizzazioni corporative e di mestiere.

In realtà si è trattato di una genesi territoriale. Tale genesi proveniva dalla vita associativa che si esprimeva nel tessuto urbano a livello di contrada, di rione, di parrocchia o, come si diceva allora, di vicinia. Qui si era avuta una proliferazione di società, cioè di raggruppamenti ora devozionali, ora assistenziali oppure di confraternite, con anche delle societates armate che raggruppavano tutti coloro che in un certo quartiere della città servivano come fanti o pedites nella milizia comunale.

Si è quindi di fronte a un codice di valori opposto rispetto alle tradizioni cavalleresche, tipiche dei precedenti gruppi dirigenti. Le società armate dei pedites sono presero poi a federarsi e a unificarsi, confluendo spesso in un'unica società popolare di scala cittadina. Ciò avvenne alla metà del 200 e portò anche a un collegamento di queste società cittadine di popolo con gli organismi di mestiere, le arti.

Ma non si tratta di un modello generale. La fusione popolo-corporazioni, che per esempio fu evidente a Firenze, non si diede in tutti i casi. e il popolo ebbe forza politica anche senza la presenza di organismi corporativi. Un esempio tipico della genesi del comune popolare può essere dato dalla città di Bergamo, dove nel primo decennio del XIII secolo la vicinia, cioè la ripartizione territoriale minima, sviluppata intorno ad una chiesa parrocchiale, appare essere un microcosmo sociale e politico. Documenti relativi ad un'inchiesta del 1207 per accertare l'appartenenza di certi cittadini alla vicinia urbana di San Pancrazio gettano luce su una comunità che è da tempo abituata a comportarsi in modo solidale e unitario.

Per cui, ad esempio in materia fiscale, la vicinia veniva investita dal comune del compito di fornire globalmente una quota determinata di tassazione. Sarebbe poi spettato ai vicini raccogliere le singole entrate fino a raggiungere il totale fissato. In materia militare, i vicini erano tenuti a servire nella milizia comunale col proprio standardo e ad espletare compiti di guardia. Infine, la vicinia appare essere un nucleo di forte solidarietà sociale, quasi una grande famiglia collettiva, con i suoi propri rituali, la messa presso la chiesa parrocchiale, l'assemblea per l'elezione dei consoli viciniali, il concorso comune ai funerali e alle spese di sepoltura, per cui il rapporto di vicinanza emerge dalla documentazione come una dimensione fondante della società comunale nel suo insieme e presenta una forma di legame simile a quella del vincolo parentale, per cui queste porzioni di città, diventano delle unità fiscali, militari, centri di convergenza politica. Ed è su questa base rionale di solidarietà, di coesione spirituale, con una propria struttura di gestione, che sorgono gli organismi locali che vennero chiamati di popolo.

L'evoluzione si svolse in primo luogo soprattutto verso gli aspetti militari, creando società o compagnie armate, societates armorum opeditum, sono dette nelle fonti. Infatti l'obbligo di far parte della milizia comunale era, fra tutte le attività di Rione, la più idonea a sviluppare quadri di organizzazione e di coordinamento di gruppi dello stesso territorio. E poi queste società militari avevano anche il compito difensivo del rione anche perché spesso gli scontri fra gruppi familiari aristocratici, fra loro concorrenti, rischiavano di travolgere i rioni popolari. Quindi esigenze di ordine, di pacificazione e di autodifesa resero permanente l'organizzazione rionale dei pedites e poi le immisero nel vivo del gioco politico cittadino. un caso fra i più precoci è quello di Lucca.

Già nel 1197 il coronista Ptolomeo parla della formazione di certe prime societates e nel 1203, al fianco del podestà di Lucca, vi sono dei priori delle societates concordi e peditum. Nel 1211 le dodici compagnie rionali della città appaiono federate fra loro e daranno luogo a un nuovo ordinamento comunale, quello cosiddetto dei levati, cioè di quanti si sono sollevati in armi contro il vecchio ordinamento. Questo ordinamento dei levati è aperto a tutti gli aderenti a organismi corporativi, ma è fondato sulle antiche associazioni militari territoriali. La stessa cosa accade a Bergamo, dove furono le compagnie rionali a sostenere la società di popolo cittadina all'atto della sua fondazione nel 1230. A Firenze la testimonianza del famoso cronista Giovanni Villani non lascia dubbi sulla struttura rionale della Costituzione Popolare del 1250. Queste società sconfierirono quindi identità e consapevolezza di sé a settori sociali cittadini che non erano stati coinvolti direttamente nella conduzione del governo urbano nel secolo precedente e quindi li avvicinò. ai centri del potere nell'età della podestà professionale.

Tuttavia i gruppi dell'aristocrazia consolare o i signori inurbati non rimasero estrani a queste nuove forme associative. Infatti alla testa del movimento di popolo, travolta, si posero delle famiglie importanti e antiche. Anche perché le vicinie e le contrade gravitavano già spontaneamente intorno alle famiglie maggiori della propria zona, che quindi per potenza, prestigio e capacità di alleanza esercitavano una naturale forza attrattiva e ponevano la loro egida sull'intera comunità locale.

A Piacenza, ad esempio, la società di popolo appare capeggiata regolarmente da membri delle famiglie aristocratiche landi o da Fontana o De Iniquitate. Si tratta di famiglie stanziate in tre quartieri a predominanza artigianale per cui non è difficile supporre un processo di convergenza tra gruppi parentali potenti alla ricerca di continui spazi di affermazione con il movimento di popolo che in quei gruppi parentali a sua volta vedeva la garanzia di una corta guida politico-militare. A Firenze, alla fine del 200, la famiglia dei Bardi appare il centro della vita collettiva del popolo di Santa Maria Soprano, mentre, ad esempio, il popolo di Santa Lucia dei Magnoli, oltre a riunirsi normalmente presso la chiesa viciniale, nel 1310 si raduna anche nel palazzo della potente famiglia dei Mozzi. Sempre a Piacenza, negli Annales Placentini, vi è ricordo di un sollevamento del 1250 guidato da un popolano, Antolino Saviagata, ma riferisce il cronista su istigazione della famiglia degli Scotti, di cui egli era un vicino. Per quanto riguarda la struttura di questa nuova entità che si costituisce all'interno del comune più ampio, e cioè la struttura del comune popolare, esso replicava la struttura di quello cittadino.

Aveva propri statuti, un'assemblea e un capitano del popolo. I diversi organismi locali furono riuniti nella struttura cittadina, fornivano in modo proporzionale membri al Consiglio del Popolo e rettori ai collegi dirigenti. Ed è in questa fase...

di rappresentanza politica generale che spesso il comune popolare colludeva e si fondeva con gli organismi artigiani, da tempo attivi con le loro forme corporative, organismi che all'epoca venivano chiamati più propriamente arti o paratici. Il termine corporativo è un termine storiografico quindi successivo. Tornando ai casi di Lucca e di Bergamo, già nella prima metà del 200 è documentata questa fusione.

fra organismi corporativi e comune popolare. A Bergamo si verifica anzi una sovrapposizione delle arti sul comune popolare e i consori delle arti acquistano il controllo completo delle attività interne, dall'elezione della dirigenza popolare alla revisione degli statuti. Un caso emblematico è quello fiorentino, la riforma del 1282. Inizialmente i priori delle arti, da prima tre poi sei, furono posti al fianco delle magistrature già esistenti. Questi priori erano esponenti di un'elite mercantile e affaristica interna alle arti maggiori e sono anche il segno di un movimento popolare che a Firenze si era fondato soprattutto sulle organismi artigiani più che sulle organizzazioni rionali.

Quindi il connubio fra arti e popolo assunse le forme più varie, dalla semplice confluenza delle masse artigiane nei quadri del popolo, al controllo dell'organismo unitario cittadino da parte delle associazioni di mestiere, alla vera e propria rifondazione degli organismi popolari su base corporativa. Quest'ultima forma si ebbe soprattutto a Firenze e a Bologna. Anzi, a Bologna il popolo, nel suo Statuto del 1248, decretò una perfetta parificazione fra società di arti e società di armi, con totale identità di diritti nell'elezione degli organi collettivi.

In molte città il comune popolare ebbe la meglio, si sostituì al comune cittadino antecedente e le sue decisioni divennero quindi vincolanti per tutta la cittadinanza. Questa dinamica non fu priva di scontri ed anzi essi furono spesso molto duri e assunsero talvolta l'aspetto di una vera e propria lotta tra le classi. Il nuovo comune popolare in genere impose una volontà dirigistica e centralizzatrice, quasi a voler affermare la superiorità. della dimensione politica su quella sociale.

Ciò si espresse in una razionalizzazione veloce degli apparati finanziari e fiscali del Comune, in una legislazione organica di disciplina dell'ordine e di controllo dei comportamenti, nell'uso sistematico della scrittura a scopi amministrativi, nell'attività intensa dei tribunali. Quasi ovunque, negli anni 80-90 del 200, si giunse a una resa dei conti con coloro che non si mostravano disposti ad accettare le nuove forme della legalità, il che culminò in una dura legislazione antimagnetica. Si trattava di leggi di allontanamento dei pubblici uffici di tutti coloro che fossero dichiarati appunto magnati o grandi. Tali erano considerati coloro che potevano combinare ricchezza, potenza e aggressività ostentata, contraddizioni militari apertamente rivendicate. Contrassegni che riguardavano anche le aristocrazie nobiliari di origine più recente, che seppure di matrice commerciale, assumevano quasi sempre i comportamenti della nobiltà più antica.

Quindi già intorno alla metà del secolo, rettori di popolo, anziani, priori, capitani, erano presenti nell'apparato di gestione urbano in modo regolare. Si passò poi ad un principio di spartizione degli uffici che riservava di diritto al popolo quote di rappresentanza in tutti i settori dell'amministrazione. Infatti, in caso di difficoltà militari o economiche che allentavano il potere delle elite precedenti, si aprivano varchi per l'iniziativa popolare. Ad esempio il tumulto che nel 1228 portò al potere a Bologna le società d'arti, avvenne nel cuore di un lungo scontro della città con i modenesi e i loro alleati.

A Pisa le prime attestazioni del popolo sono del III decennio del secolo, in un momento di paralisi dell'espansione comunale. A Piacenza una momentanea scarsità di granaglie favorì il rivolgimento del 1250. La crescita ulteriore portò, intorno al 1270, ad un peso preponderante degli organismi di popolo nelle istituzioni. Il nuovo rapporto di forze si espresse in una costituzione tendenzialmente dualistica, che a fronte del podestà vide operare come sua replica e controparte un capitano del popolo. Una figura istituzionalmente ambigua, organo di parte e simultaneamente organo di governo, il capitano riproduceva il podestà essendo spesso anche egli un funzionario forestiero e itinerante, attinto a quel medesimo ceto di politici professionali ed esperti da cui il comune reclutava i podestà. Ma era diversa la base politica che lo sosteneva, che andava dagli esponenti popolari ormai presenti nel Consiglio Comunale, agli stessi organismi del popolo, all'apparato militare di cui il popolo disponeva nell'intera superficie cittadina.

Quindi vertice di un ordinamento forte, il capitano erose, in misura diversa da città a città, le prerogative podestarini. La competenza in materia giudiziaria in linea generale fu conservata dal Podestà, ma non nelle cause di alto significato politico e non in quelle in cui fosse implicato un membro del popolo. In questi casi il capitano esercitò una sorta di giurisdizione sussidiaria con potere di cassazione delle sentenze podestarili.

Tuttavia tutto questo movimento e questa linea di trasformazione non agì in genere in modo davvero dirompente rispetto al quadro istituzionale. Al contrario, Si può rintracciare una linea unitaria sintetizzabile in una sorta di razionalizzazione a tappe forzate dell'organismo comunale e quindi nella costruzione di solide strutture di potere cittadino che si incardinavano sulla pars populi ma assumevano come prospettiva specifica della loro azione la concordia collettiva nella società e il buon funzionamento del governo cittadino. Il popolo quindi non va scambiato con le fazioni cittadine, ma come una struttura unitaria all'interno della quale poi si riprodussero le divisioni di fazione che già c'erano state nella fase consolare e podestalile all'interno delle rispettive aristocrazie urbane.

Tuttavia l'ideologia del comune popolare, di cui questi organismi popolari erano l'espressione, si riferiva alle abitudini di vita e alle istanze della base sociale rionale ancorata all'artigianato, al commercio, alla piccola proprietà terriera, con uno stile di vita alieno dalla ostentata grandezza perseguita dai magnati. Tuttavia questa opera razionalizzatrice del comune popolare non giunse a pieno compimento e non riuscì quindi a eliminare, a sradicare la faziosità comunale. Si pensi al caso di Firenze in cui dapprima ci fu il contrasto ideologico fra Guelfa e Ghibellini e poi con la sconfitta definitiva di Ghibellini alla fine del 200, ben presto si creò un'ulteriore divisione all'interno della parte Guelfa, a cui apparteneva anche Dante, che fu priore del comune di Firenze nell'anno 1300, comune di Firenze all'interno del quale si verificò la spaccatura molto dura tra i cosiddetti guelfi bianchi e guelfi neri, che portò all'esilio dei maggiori esponenti della parte socconvente, cioè i guelfi bianchi, non favorevoli all'egemonia di Papa Bonifacio VIII sulla città.

Alla parte socconvente apparteneva anche Dante, che era quindi un guelfo bianco e che passò il resto della sua vita, dopo il 1301, lontano da Firenze, in permanente esilio. Quindi, come si vede, la conflittualità interna alle città italiane nel corso del 200 si alimentò non solo dei contrasti fra aristocrazia consolare e nuovi ceti emergenti del cosiddetto popolo, cioè la media e piccola borghesia cittadina, e poi all'interno del popolo fra le fazioni contrapposte, legate spesso a gruppi di interessi differenti, ma fu caratterizzata anche da una sorta di contrasto ideologico generale fra forze filo-papali e forze filo-imperiali. Da momento che l'imperatore Federico II aveva ripreso il contrasto col papato già messo in campo all'epoca di suo nonno Federico I nel XII secolo, questa lotta si sviluppò soprattutto fino alla morte di Federico II nel 1250 e questa volta nel XIII secolo. I due partiti contrapposti presero il nome di Guelfi e Ghibellini, anche se talvolta il contrasto più che ideologico era di interesse, poiché molte città preferirono l'uno o l'altro partito più per contrapporsi a città vicine avversarie che per vero e proprio coinvolgimento ideologico. E quindi nacquero Nelle città italiane i partiti opposti Guelfo filo papale e Ghibellino filo imperiale.

Questi due nomi hanno un'origine tedesca e si riferivano nell'ambiente germanico ai gruppi principali in lotta per la corona imperiale. Quindi il bando poteva accadere anche su cittadini non allineati sul piano dello schieramento ideologico. Un altro dei motivi di contrasto all'interno della città era l'accertamento fiscale, poiché nel comune si tesi a superare la divisione fiscale per ceti e l'esenzione fiscale nobiliare, che invece vigeva nelle monarchie feudali.

A Milano si varò ad esempio una sorta di catasto che censiva le proprietà e l'effettiva ricchezza familiare. Pace nella città e giustizia erano i valori centrali della ideologia comunale, accanto al valore della cittadinanza. Ma la pace interna divenne col tempo il tallone d'Achille delle città medievali, poiché non si riuscì mai a trovare una modalità permanente per assicurare tale pace ed evitare le lotte intestine.

Per quanto riguarda la giustizia, forse il baricentro valoriale dell'intera vita comunale, emblematico è l'affresco trecentesco di Simone Martini nel Palazzo dei Signori, cioè il Palazzo Comunale di Siena, dove si riuniva il governo cittadino. Si tratta di una maestà con Gesù Bambino che regge un cartiglio con il detto biblico «Diligite Justitiam», ad indicare che l'esercizio della giustizia doveva far riferimento direttamente al vertice morale divino ed essere estraneo a pressioni di parte, interne alla città o esterne. A questo scopo anche il processo elettorale veniva organizzato in modo tale da mescolare, ad esempio a Firenze e a Venezia, criteri elettivi, sorteggio, esame degli eletti, per permettere un'efficace rotazione delle cariche ed evitare la formazione di consorterie ristrette. Anche la durata delle cariche Era breve, solitamente sei mesi, tranne ipodestà. Solo quella di rettori degli ospedali e di capo della fabbrica del Duomo erano cariche di lunga durata, anche perché i loro titolari vi si consacravano donando all'impresa il proprio patrimonio e assumendo la condizione di oblati, cioè frati laici, e abbandonando anche la condizione di coniugati.

I giuristi incarnavano questa civiltà del diritto e della legalità, che era la civiltà comunale italiana del Medioevo. Tanto che i maestri dell'Università di Bologna ebbero nel 200 il privilegio civico altissimo di essere sepolti in monumenti pubblici posti nelle piazze cittadine. L'urbanistica delle città comunali non era lasciata al caso.

ma era il frutto di un attento e continuo governo del territorio. Delle apposite commissioni controllavano le luci, i prospetti e la sicurezza contro i temutissimi incendi delle case private. Erano regolamentate la costruzione e la tenuta di giardini, piazze e palazzi pubblici. Erano programmate e controllate le costruzioni private per avere strutture viarie, salubri ed esteticamente valide.

Anche il modo di vestirsi era regolamentato e si proibiva l'uso smodato di vesti e orpelli troppo ricchi, per non umiliare i meno abbienti e quindi preservare la pace sociale. Si faceva eccezione per i cavalieri e i dottori, ovvero medici e giuristi, la cui presenza e magnificenza, anche nel vestire, era una sorta di vanto estetico cittadino come i bei palazzi. Col contado...

il rapporto rimase sempre asimmetrico e gli abitanti della campagna non ebbero di norma la cittadinanza e non partecipavano alla vita politica cittadina e alle grandi decisioni che vi venivano prese. Gli abitanti del contado non erano dunque né veri forestieri né veri cittadini. In misura sempre crescente i ricchi cittadini acquistarono proprietà rurali. Gli sviluppi politici all'interno dei comuni nella seconda metà del 200 seguirono di fatto un doppio binario. Viera abbiamo visto la situazione nella quale il comune popolare riusciva ad egemonizzare la vita cittadina, ma vi furono anche città in cui un'autorevole famiglia locale prendeva progressivamente il sopravvento e quindi gestiva le principali cariche pubbliche, nonostante tutti gli impedimenti che gli statuti avevano introdotto per evitarlo.

Verso l'esterno, tuttavia, entrambe le forme di governo perseguivano gli stessi fini. continuare l'espansione territoriale, regolamentare l'intero spazio acquisito di castelli e villaggi, ampliare il mercato, favorire l'immigrazione. Non c'era una specifica spinta militare in questa espansione, poiché in città la cultura cavalleresca, pur presente, non era spiccatamente preponderante. E d'altra parte la predicazione degli ordini mendicanti, francescani e dominicani, tipici.

ordini cittadini, i primi ordini monastici a stabilire conventi in città, questa predicazione accentuava l'adesione ai valori della pace e della misericordia. Ma i castelli circostanti le città costituivano un potenziale pericolo, poiché potevano essere sfruttati dai nemici per attaccare la città e potevano all'inverso essere invece molto utili come strutture di difesa preventiva. D'altra parte l'inurbamento dei nobili del contado contribuiva ad accrescere i capitali e il potenziale economico cittadino. Per cui il motore iniziale dell'espansionismo comunale fu più caratterizzato da esigenze di sicurezza che da vero e proprio espansionismo. Le cose cominciarono a cambiare nella seconda metà del 200, quando invece l'espansionismo cominciò ad averla meglio.

Cosa che poi porterà nel giro di un secolo, un secolo e mezzo, alla formazione dei cosiddetti stati regionali italiani, ognuno dei quali aveva al centro una città che si era resa egemone in un vasto raggio attorno a sé. Il Comune a Guida Popolare iniziò anche ad esercitare un controllo sui maggiorenti cittadini, stilando liste di famiglie sottoposte a restrizioni e vietandogli ad esempio il porto d'armi o imponendogli di dare garanzia. che non avrebbero turbato la pace cittadina.

Nacquero le legislazioni antimagnetizie molto dure, ad esempio a Bologna e a Firenze. I comuni popolari effettuarono anche affrancazioni di servi nel contado, celebri sono quelle bolognesi del 1257 e quella fiorentina del 1289. Si può dire che comune popolare e signoria convergevano anche nel dare all'azione politica comunale un carattere sempre più pubblico e con strutture tendenzialmente statali. Vado a dire a supportare un orientamento che intendeva far funzionare la macchina politica comunale piuttosto che incepparla o intenderla come zona di affermazione del proprio gruppo familiare e quindi imponendo un ordine nella società che andasse contro le tradizioni di autonomia politico-militare delle grandi domus familiari, avocando quindi al Comune anche l'uso della violenza legittima e pubblica in opposizione agli usi di violenza privata. Di qui appunto le legislazioni antimagnetizie. I cosiddetti ordinamenti di giustizia di Firenze furono promulgati il 18 gennaio 1293. su istigazione del ricco mercante Giano della Bella, priore, ovvero uno dei tre consoli eletti della città, che era diventato capo del Partito Popolare, cioè del ceto medio.

Con questi provvedimenti i magnati, ovvero i nobili di antica tradizione feudale e latifondista, venivano esclusi dal governo della città in favore del ceto borghese, obbligando, tra le altre cose, per essere elegibili alle cariche politiche, l'iscrizione a un'arte. Il cosiddetto popolo magro o minuto, composto dagli strati più bassi e poveri della società, salariati, braccianti, piccoli dettaglianti, era comunque ancora escluso, non esistendo arti che comprendessero le loro categorie. Per questo a Firenze si dovrà aspettare fino al 1343. Tuttavia, per quanto riguarda i poveri della città, la devozione generale degli uomini del Medioevo e la predicazione degli ordini mendicanti favorirono le donazioni, specialmente testamentarie, di coloro che volevano ingraziarsi il perdono divino dei loro peccati dopo la morte.

E il Comune incoraggiava tali finanziamenti verso l'assistenza ai bisognosi, favorendo fiscalmente le opere pie, gli ospedali, i ricoveri, le elemosine e i lasciti ad pias causas, oppure le compraternite di misericordia. Anche per questo nelle città italiane si riuscì a ad attudire spesso gli effetti di carestie, crisi economiche ed eventi negativi. La legislazione antimagnatizia era indirizzata anche alla nuova e recente nobiltà e la identificazione dei magnati avveniva per lo più attraverso il duplice criterio della cosiddetta pubblica vox et fama e dalla presenza nella domus familiare di individui insigniti della dignità cavaleresca.

La pubblica fama non va considerato un criterio labile o fluttuante, poiché si fondava proprio su quella evidenza immediata di comportamenti sociali, a tutti noti ed a tutti constatabili, che contrassegnava sia i nobili di tradizione antica, sia i maggiorenti di ricchezza recente, che ne avevano assunto gli atteggiamenti. Si pensi ad esempio ai cerchi di Firenze, che Dino Compagni ... descrive come di basso stato ma buoni mercatanti e gran ricchi e quindi ormai proiettati nella cosiddetta grandigia grandezza visto che scrive Dino Compagni vestivano bene e teneano molti famiglie e cavalli e avevano bella apparenza e addirittura alcuni di loro comperarono Palaggio dei Conti cioè residenze della famiglia Guidi di antica nobiltà, dove, dice sempre Dino Compagni, si insediarono tenendo gran vita.

I grandi furono esclusi totalmente o parzialmente dai pubblici uffici, ci fu un aggravamento duro delle pene e dei procedimenti giudiziari se essi avessero recato offesa ai popolari, e in assenza del reo si tenevano responsabili consanguinei, e poi l'obbligo, abbiamo già detto, di dare garanzie de non offendendo, cioè di non minacciare il comune. Nessun magnate poteva ospitare nella propria casa riunioni, non poteva acquistare case e torri in posizioni militarmente determinanti, non poteva uscire di case in occasione di tumulti o valicare armato i confini della propria parrocchia. Non si tratta comunque di una normativa che fu applicata con rigore, anche perché non mirava in effetti a schiantare questo ceto, ma piuttosto a disciplinarlo anche duramente, allontanandolo dai centri nevralgici del potere, ma lasciando loro ad esempio spazio per esplicare senza pregiudizio della collettività le proprie attitudini al comando, ad esempio nelle operazioni diplomatiche o nelle questioni militari o nella custodia di fortezze comunali. Nel corso del Trecento la bipolarità tra comuni signorili e comuni popolari si accrebbe e spesso nella stessa città i due ordinamenti si alternarono, ad esempio a Pisa, Firenze, Bologna, Lucca, Perugia.

Ma via via i gruppi dominanti signorili tesero ad avere la meglio. Comunque il comune signorile mantenne la stessa struttura giuridica, anche se era dominato da un personaggio eminente che poneva i suoi uomini alla guida degli uffici cittadini principali, per cui si costituiva una sorta di corte che imitava lo sfarzo delle corti regge d'Oltralpe. Questa nuova struttura aveva anche una sua attrattiva ideologica poiché si presentava come alternativa e nemica della litigiosità faziosa che affliggeva la vita comunale duecentesca.

e i maggiorenti di questo comune signorile ne traevano comunque dei vantaggi, soprattutto se il Signore favoriva l'espansione esterna della città. La Milano, egemonizzata dai Visconti e che addirittura nel 1395 divenne un ducato, fu il modello del comune signorile, mentre Firenze, anche per ragioni di contrasto verso l'espansionismo milanese, assunse il ruolo di capofila del comune popolare e libero. Gli intellettuali furono molto attivi, su entrambi i fronti, nel sorreggere ideologicamente le due tendenze. Da parte antisignorile si cominciò quindi ad usare sempre più il termine Repubblica non tanto come sinonimo di ordinamento pubblico o di Stato, ma di libero Stato popolare. La metà del Trecento è anche l'epoca delle più alte teorizzazioni dello Stato e delle libertà cittadine.

Marsilio da Padova, nel suo Defensor Pacis del 1324, sosterrà una teoria tutta moderna della sovranità democratica. Mentre il dotto giurista Bartolo da Sassoferrato, morto nel 1357, parlò della città-Stato come civitates non superiorem riconoscentes, forgendo così un concetto che sarà utilizzato per definire la pretesa di sovranità dei nascenti Stati europei, che nel loro caso non riconoscevano poteri universali superiori, papato o impero. Queste dottrine trovarono la loro magnificazione iconografica nell'affresco del Buon Governo al Palazzo dei Signori di Siena, condotti da Ambrogio Lorenzetti nel 1338 e 39. Col tempo si ebbe anche nei comuni popolari, tuttavia, una tendenza a superare la legislazione antimagnatizia e anche le famiglie popolari più importanti tesero a chiudersi in una forma di aristocrazia. che assecondava la tendenza europea all'accentramento del potere e al primato della cultura sociale nobiliare.

A Venezia si ebbe dalla fine del 200 la cosiddetta Serrata del Gran Consiglio, che escluse molte famiglie dal governo della Repubblica e portò alla formazione di un senato permanente. Anche a Lucca e Genova ci fu una riforma di questo genere. Anche Bologna e Perugia ebbero una fase signorile, ma poi furono inglobate nello stato della Chiesa. A Firenze si formò un ristretto gruppo di famiglie in vista, chiamate gli Ottimati, da cui emersero i Medici, che diverranno signori dello stato fiorentino.

Tuttavia Firenze prima che si manifestasse la svolta signorile, ci fu un ulteriore tentativo di democratizzazione del comune. Nell'estate del 1378, infatti, i cosiddetti cionpi, cioè i salariati delle diverse arti, in particolare quelli dipendenti dall'arte della lana, sottoposti a forte pressione economica e sociale e privi di diritti politici, si ribellarono. e presero il controllo della città, rivendicando l'istituzione di una loro arte, cui fosse riservato anche un quarto delle cariche del comune. Insediato nel palazzo dei Priori un loro gonfaloniere di giustizia, l'operaio Michele di Lando, elaborarono una riforma per creare tre nuove arti del popolo minuto, o popolo di Dio, con diritto a un terzo delle magistrature.

Due di queste arti comprendevano i piccoli artigiani e una i cionpi veri e propri. Ma il 31 agosto la reazione delle altre arti coalizzate pose fine alla rivolta e a questo tentativo di riforma statutaria. Il potere rimase nelle mani del popolo cosiddetto grasso dal cui interno emergeranno le famiglie degli ottimati.

tra le quali nel XV secolo prevarrà quella dei Medici. Come detto, questa situazione favorì l'espansione sempre più ampia delle città principali che nella seconda metà del Trecento diedero vita a vere e proprie stati regionali, con al centro Milano, Firenze, Genova e Venezia. La crisi sanitaria e demografica di metà secolo con la peste nera e il diffondersi degli eserciti mercenari favorirono queste espansioni poiché occorrevano forze più consistenti e stati più grandi per arginare gli effetti di questi flagelli epidemie, carestie, guerre, ecc.

In questi stati regionali l'involucro giuridico comunale rimase tuttavia in vita e le città dominate solitamente si sottomettevano sottoscrivendo documenti che erano chiamati capitoli, i quali davano garanzie di preservazione di libertà e diritti. La vita interna di città come Pisa, Padova, Treviso, Bergamo, Pistoia, Arezzo, continuò ad essere vivace anche se esse ospitavano un presidio militare della città dominante. e avevano a capo un po' d'està da questa nominato. Per cui rivalità ed estraneità rimasero e portarono talvolta a ribellioni delle città sottomesse, come quella di Pisa contro Firenze, durata 15 anni alla fine del Quattrocento, o il mancato aiuto delle città venete e lombarde, sottoposte al dominio veneziano, all'epoca della battaglia di Agnadello del 1509, quando Venezia fu sfidata e battuta dalla Lega di Cambrai. cioè da Francia, Spagna e Impero, coalizzati contro la potente città lagunare.

Questi stati regionali italiani, definiti confederazioni dai giuristi dell'epoca, furono quindi degli stati cittadini ampliati e non diedero vita ad una vera unificazione. Non c'era in essi un unico ordinamento e un'unica cittadinanza, e quindi non c'era unità o identità di ceto o di politica. Vieranzi una latente contrapposizione tra centro e periferia e ogni città dominata continuava praticamente ad autogovernarsi, delegando soltanto l'alta politica alla città dominante.

Infine, che si trattasse di signoria o repubblica, rimaneva sempre, anche se in modo sempre più formale, la legittimazione popolare della sovranità. E spesso i signori, come fecero i medici a Firenze nel 400, facevano approvare dalle assemblee cittadine le modifiche da loro introdotte agli statuti comunali. Si vede quindi quanto fu longeva, almeno sul piano formale, questa stagione della libertà comunale medievale.

Ma la prima modernità travolse la libertà comunale che fu sostituita da pieni governi signorili prima. e dalla dominazione franco-spagnola dell'Italia che si impose nel corso del Cinquecento. Questa incapacità di creare un vero e proprio Stato unitario che non comportasse lotte fratricide al proprio interno fu probabilmente la causa principale che comportò il superamento storico dell'esperienza comunale italiana che, seppur dotata di valori etici e ideologici, di una solida cultura di riferimento, di mezzi economici e finanziari notevoli, non riuscì a reggere l'urto della modernità e fu quindi soverchiata dalla nascita dei potenti stati moderni europei, il che porterà alla perdita stessa dell'indipendenza dell'Italia centro-settentrionale ed anche di quella meridionale nel corso del Cinquecento.