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Esplorazioni sul Mondo Antico e la Memoria

Allora, buonasera a tutti e a tutti. Sono molto grato di questa presentazione, sono molto contento dell'invito che mi è stato rivolto e sono soprattutto grato a tutti coloro che hanno ritenuto di dedicare un pezzo del loro pomeriggio. sentir parlare del mondo antico, di questo vituperato mondo antico del quale si lamenta spesso il fatto che tenda progressivamente a fuoriuscire dai riflettori, dagli interessi collettivi e così via, e che invece insomma è confortante vedere che riesce. riesce ancora a mobilitare interesse, curiosità, partecipazione da parte di tutti i presenti e non solo. E quindi un grazie particolare a tutti e a tutte coloro che sono qui in questo momento.

Io cercherò di non tediarvi eccessivamente, insomma, di limitare il mio intervento alla misura standard di un'ora di lezione scolastica, anche se la mia non vuole essere una lezione in alcun modo. Soprattutto perché mi piacerebbe che poi, quando io vi avrò detto le cose... che ho da dirvi ci fosse una qualche forma di interlocuzione, di scambio, di dialogo con i presenti. Insomma mi piacerebbe che la seconda metà di questo pomeriggio fosse dedicata appunto a curiosità, a domande che sorgono nel pubblico anche perché se questo accadrà significherà che io sono stato capace di intercettare in qualche modo appunto la curiosità, di stuzzicare la curiosità dei presenti.

Se non succederà significherà non che voi siete renitenti a intervenire ma che io non sono stato abbastanza bravo. bravo da sollecitarvi e questo nuocerà gravemente la mia autostima per cui confido che non vorrete contribuire insomma a peggiorare il rapporto con me stesso. Allora il tema che insomma mi è stato proposto è un tema evidentemente enorme, noi ci ritagliamo un percorso all'interno di questo tema che spero possa essere interessante e magari anche mettere in luce alcune cose meno note del mondo antico.

Comincerò con... con una informazione che noi ricaviamo dal capitolo iniziale della vita di Tiberio di Svetonio. Svetonio è un autore che vive a cavallo tra primo e secondo secolo d.C., è autore delle biografie dei primi dodici imperatori romani.

Le vite dei Cesari cosiddette, da Cesare appunto fino a Domiziano, che muore nel 96 dopo Cristo. È un biografo insomma un po'pettegolo, un po'amante del gossip, uno che guarda la storia un po'dal buco della serratura, diciamo così. Però è anche, faceva di mestiere l'archivista imperiale, quindi aveva accesso ad una documentazione di prima mano che era conservata, appunto stoccata. negli archivi del Palazzo Imperiale e questo fa sì che spesso ci dia delle informazioni che altrimenti non avremmo e informazioni soprattutto fondate su una documentazione di prima mano alla quale Svetone aveva accesso in ragione del mestiere che svolgeva quando non scriveva le biografie dei Cesari.

Bene, all'inizio della biografia di Tiberio, successore di Augusto, Tiberio esponente della gens Claudia, di una famiglia quindi aristocratica quant'altre mai nella cultura romana. I Claudi erano arrivati a Roma insieme con... con l'inizio della Repubblica, quindi verso la fine del VI o all'inizio del V secolo a.C.

e da allora in poi non avevano mai smesso di essere una delle famiglie di punta dell'establishment. Ci sono Claudi praticamente lungo tutta la storia di Roma in posizioni apicali, consoli, dittatori, censori, sacerdotesse, le donne della famiglia e così via. E quindi all'inizio della biografia di Tiberio, primo imperatore della famiglia, Claudio.

appunto Tiberio Claudio Nerone, questo era il suo nome completo, Svetonio dà alcune informazioni generali su questa famiglia e dice tra l'altro che all'interno della Gens Claudia nessuno da un certo momento in poi portò il prenome di Lucio, dopo che due esponenti di questa famiglia erano stati condannati, l'uno per brigantaggio, diciamo così, l'atrocinium, e l'altro per brigantaggio. oltre addirittura per omicidio. La famiglia decise che da quel momento in poi nessuno dei Claudi dovesse più chiamarsi Lucio e in effetti, siccome noi conosciamo i nomi di un gran numero di esponenti di questa famiglia, proprio perché è una famiglia di grande spicco, possiamo verificare che è davvero così, cioè che a partire da un certo momento in poi non ci sono più Luci Claudi nella onomastica di questa importante genese romana. Questo fenomeno non è affatto isolato, anzi ha conosciuto una serie di ulteriori attestazioni che adesso rapidissimamente passiamo in rassegna. Intorno al IV secolo a.C.

Marco Manlio Capitolino era diventato famoso perché aveva difeso la rocca del Campidoglio dall'attacco dei Galli. Vi ricordate la storia famosa? delle oche del Campidoglio, insomma i Galli avevano occupato completamente la città di Roma, tranne la rocca del Campidoglio, lì si era serraiata una pattuglia di ultimi resistenti, soltanto che i Galli avevano trovato il modo di dare la scalata.

la rupe tarpea che è la parete che cade a strapiombo insomma dal Campidoglio verso il foro e sarebbero riusciti a cogliere di sorpresa questo presidio estrema trincea della resistenza romana se non fosse che le oche sacre alla dea Giunone cominciarono a starnazzare quando sentirono il rumore di questi guerrieri che si arrampicavano i guerrieri si svegliarono e riuscirono a respingere e questo naturalmente quasi certamente è un racconto leggendario che serve a spiegare perché questo Marco Maglio ebbe il soprannome di Capitolino, che deriva appunto dal nome del Campidoglio, luogo nel quale si sarebbe manifestata la sua virtù eroica. Se non che, forse anche perché sulla scorta della fama e del prestigio che aveva ottenuto grazie a questo exploit strepitoso, ad un certo momento Marco Maglio si sarebbe montato la testa, avrebbe cominciato a concepire almeno... così di questo si persuasero i suoi avversari, ambizioni tiranniche.

Avrebbe cercato, desiderato farsi re e l'adfectatio regni, come la chiamavano i romani, l'aspirazione a ricoprire un potere personale nella Roma ormai stabilmente repubblicana, che quindi si è lasciata alle spalle in maniera anche traumatica la stagione della monarchia, è un crimine molto serio che viene punito con la morte. E dunque Marco Maglio Capitolino viene... viene condannato a morte e anche in questo caso, ci dice Livio, storico di età augustea, la Gens Manlia, la famiglia alla quale questo personaggio apparteneva, emanò una disposizione, lui dice nota gentilicia, cioè una sorta di appunto disposizione che appartiene alla Gens, a questo gruppo familiare allargato del quale Marco Manlio faceva parte e nel quale si stabiliva che nessun Manlio da quel momento in poi si sarebbe dovuto chiamare Manlio. Marco. E anche qui noi abbiamo la possibilità di verificare nei fasti consolari, insomma nelle liste che abbiamo dei magistrati insomma supremi della Repubblica Romana, che da quel momento in avanti di Marco Manlio non ce n'è più.

Il che vuol dire che queste storie erano autentiche e che queste disposizioni erano prese molto sul serio evidentemente. Questo continua a capitare abbastanza a lungo. di questo genere attestato ancora in piena età augustea e ne cade vittima non a caso Marco Antonio. Marco Antonio prima alleato, poi nemico mortale di Ottaviano, figlio adottivo di Cesare, poi assurto al potere con il nome di Augusto, quando alla fine degli anni 30 del primo secolo a.C.

Marco Antonio, che nel frattempo si era alleato alla regina d'Egitto, Cleopatra insomma viene definitivamente sconfitto Augusto Vara ha un vero e proprio programma di damnazio memorie come appunto si dice nei confronti di Marco Antonio che aveva ricoperto ruoli di grandissimo spicco era stato console oltre a essere braccio destro di Cesare e così via era stato appunto supremo magistrato insieme a Ottaviano stesso ma questo programma diciamo così di rimozione della memoria si muove ad ampio spettro riguarda i monumenti, riguarda le scritture pubbliche e così via, ma riguarda anche il nome. Nessun Antonio dovrà più chiamarsi Marco. In questo caso non abbiamo la possibilità di verificare che questo provvedimento abbia assortito i suoi effetti per l'ottima ragione che la famiglia di Marco Antonio si estinse di lì a poco. Marco Antonio aveva un figlio primogenito che si chiamava anche lui Marco Antonio perché i romani avevano l'abitudine di dare il nome del padre al figlio primogenito, anche il primogenito di Marco Tullio Cicerone si chiamava Marco Tullio Cicerone, ma nel frattempo era morto.

C'era un secondo figlio che si chiamava invece Iullo Antonio, ma poi la famiglia si estingue e quindi il problema in qualche modo si risolve da sé. Ma ancora più interessante è un caso che si verifica sotto il successore di Augusto, il Giacicino. citato Tiberio. Caso molto interessante perché per questa situazione specifica noi non dipendiamo soltanto dalle fonti letterarie, ma abbiamo trovato negli anni 90 del Novecento un documento epigrafico di straordinaria importanza in Spagna, nell'area spagnola, che contiene il cosiddetto Senato Consulto contro Gneo Calpurnio Pisone, personaggio appartenente ad una nobilissima famiglia anch'essa dell'aristocrazia. I Calpurni pretendevano di discendere addirittura a un figlio del re Numa Pompilio, successore di Romolo, il quale si sarebbe chiamato Calpo e da questo Calpo sarebbero discesi i Calpurni.

Quindi famiglia che vantava un blasone, insomma, assolutamente di tutto rispetto. Nio Calpurnio Pisone però fu coinvolto nella torbida vicenda della morte di Germanico, personaggio della famiglia imperiale molto amato dai Romani. i quali quando si sparsa la notizia della sua morte, ci raccontano gli storici, cominciano a buttare giù le statue degli dèi a proposito di distruzione delle statue, in quanto furiosi contro la divinità che aveva fatto morire questo giovane di bellissime speranze.

Insomma, nella morte di Germanico sembra che questo Calpurnio Pisone avesse giocato un ruolo, per cui Pisone venne processato, venne condannato a morte, il Senato emanò una disposizione. di cui ora diremo brevissimamente, e come spesso capitava in questi casi, il testo di questa disposizione venne scolpito e affisso pubblicamente in alcune grandi capitali delle province dell'impero. E noi abbiamo trovato una copia epigrafica appunto di questo documento, il quale sancisce tra l'altro, anche qui, il fatto che nessun calpurnio pisone si debba mai più chiamare gneo come il condannato.

Qual è la particolarità di questo caso rispetto a quelli che abbiamo esaminato in precedenza? Che Neo Calpurnio Pisone figlio era vivo in quel momento e quindi stiamo parlando di un vivente al quale il Senato impone di cambiare il proprio prenome. Quindi non più di una disposizione che riguarda i posteri, quelli che verranno dopo non si potranno chiamare così, ma di una disposizione che riguarda una persona che in quel momento è morta.

quel momento era viva e che in quanto primogenito portava lo stesso prenome del padre. E infatti noi sappiamo che questo provvedimento venne eseguito perché questo ex neo Calpurnio Pisone ebbe l'avventura di vivere fino all'età di Nerone, quindi fino agli anni 60 del primo secolo d.C., solo che si chiamò Lucio. Ad un certo momento dovette modificare il proprio prenome e da neo Calpurnio Pisone...

prese a chiamarsi Lucio Calpurnio Pisone. Quindi siamo di fronte ad una situazione nella quale l'obbligo di modificare il proprio nome può riguardare addirittura una persona vivente. Ma da questo documento noi apprendiamo tutta una serie di altre cose. Per esempio il fatto che ai Pisoni veniva chiesto anche di rimuovere alcuni ampliamenti edilizi che avevano realizzato in aree.

e della città evidentemente di loro proprietà. In particolare sulla porta fontinale, che era evidentemente una delle porte delle mura serviane di Roma, i Calpurni avevano realizzato una sorta appunto di loggia che metteva in contatto due edifici di loro proprietà. Il Senato dispone che questo ampliamento, che era stato realizzato dal condannato a morte, debba essere rimosso e si debba ripristinare lo status quo.

Quindi la condanna nei confronti di questo personaggio caduto in disgrazia presso il potere imperiale arriva addirittura alla richiesta di ripristinare la situazione preesistente al momento in cui Calpurnio Pisione aveva operato. E naturalmente riguarda le scritture pubbliche, le statue onorifiche dedicate a questo personaggio, eccetera, eccetera. Insomma, i romani fanno quello che secondo Tommaso d'Aquino, non uno qualsiasi, Era impossibile persino a Dio. Tommaso d'Aquino diceva c'è un limite all'onnipotenza divina, Dio non può far sì che non sia stata una cosa che è già stata. Bene, i romani riescono a fare anche questo, riescono in qualche modo a riscrivere il passato, espungendo da questo passato una serie di eventi e di fatto creando un passato fittizio nel quale è come se un certo personaggio, con quello che ha realizzato nella sua vita.

non ci fosse mai stato. E questo è un dato, mi pare, di grandissimo interesse. E non vorrei che passasse sotto, insomma, sfuggisse alla nostra attenzione anche l'intervento sul nome, che è una cosa, anche questa, di notevole importanza, che si lega alla percezione appunto del nome proprio nella cultura romana, sulla quale non starò a tediarvi perché non è l'oggetto del mio intervento di stasera.

Però è importante accennare quantomeno a questo aspetto perché altrimenti non si capisce perché fosse così importante censurare il nome. Tutti quanti voi avete sicuramente in mente una delle scene più famose, insomma, del Romeo e Giulietta di Shakespeare, la scena del balcone, quando Giulietta effonde alla notte veronese le sue pene d'amore, non sapendo che... Lì giù nel giardino c'è Romeo che la sta ascoltando e una delle cose che Giulietta dice è appunto perché tu sei Romeo. In fondo il nome che cos'è?

What's in a name? Un'espressione che poi è diventata quasi proverbiale in inglese. Che cosa c'è in un nome? In fondo un nome non è un braccio, una gamba, non è una parte della persona, è semplicemente un'etichetta, un'etichetta neutrale.

La rosa... dice Giulietta, se anche non si chiamasse Rosa non perderebbe nulla dello splendore, della magnificenza che la caratterizza, e così anche tu, se non ti chiamassi Romeo, non smetteresti di essere la meravigliosa persona che sei. Ecco, questa cosa che sembra una frase romantica, insomma, così, o sdolcinata persino, in realtà tocca una questione sulla quale la filosofia occidentale si è rovellata per secoli, qual è il rapporto fra il nome e la cosa? Il nome è una semplice etichetta neutrale che non ha nulla a che vedere con la cosa che viene designata da quel nome, oppure tra il nome e la cosa c'è un rapporto più stretto, un rapporto quasi necessitato, quasi necessario.

Ecco, Giulietta aveva delle ottime ragioni per pensare che il nome in fondo potesse essere modificato a piacimento perché non ha nulla a che vedere con l'identità del personaggio che la porta. Per i romani non è così. Per i romani il nesso che esiste fra il nome di una persona e l'identità, quella che noi chiamiamo appunto l'identità di quella persona, è molto stretto. E dunque censurare il nome, o meglio, censurare un certo tipo di combinazione tra il prenome, Lucio, Marco, eccetera, Nieo, e il cosiddetto gentilizio, il secondo dei tre nomi che gli aristocratici romani portavano, censurare quella combinazione significa Non semplicemente esprimere la propria condanna nei confronti di qualcuno che quel nome ha portato, ma evitare che si possa ricreare nel corso del tempo qualche cosa che non è semplicemente una combinazione onomastica, ma è come se in qualche modo riproponesse sulla scena della storia un personaggio del quale invece si vuole che finisca nel cestino dei rifiuti della storia.

Quindi questa connessione fra nome individuale... Il personaggio che porta questo nome è una connessione che nella cultura romana è molto stretta. Così come la cultura aristocratica romana è una cultura essenzialmente civica, essenzialmente pubblica. Un personaggio che ricopre una magistratura, un personaggio che fa parte della classe dominante della città, è anche un personaggio che ha un fortissimo tasso di visibilità pubblica. perché realizza dei monumenti e su questi monumenti c'è il suo nome come colui che ha patrocinato e realizzato i lavori, perché vengono elevate delle statue in suo onore, perché il sepolcro della sua famiglia non si trova in un mausoleo appartato, ma si trova lungo le grandi vie di comunicazione.

Chiunque di voi abbia percorso la via Appia sa che la via Appia è costellata di mausolei e di tombe di grandi e meno grandi famiglie romane, perché... Anche la tomba è un luogo di visibilità collettiva dei personaggi di spicco. E dunque intervenire sulla memoria di questi personaggi significa anche in qualche modo riplasmare non soltanto il passato della città, ma anche il suo skyline, insomma, il suo paesaggio urbano. Significa, per esempio, appunto, come dicevamo prima, ripristinare una situazione.

nella quale gli interventi ed ilizi realizzati dalla persona condannata vengono abbattuti e rimossi perché tutto deve essere come se quella persona non ci fosse mai stata. Andiamo avanti perché il tempo passa e non voglio venir meno alla mia promessa di essere breve. Tutto questo riguarda, come capite bene, la memoria individuale. Però esiste naturalmente in tutte le culture, anche nella cultura romana, anche una memoria collettiva, una memoria che riguarda il passato della città.

E ci sono delle situazioni, e sempre più spesso si determinano con il passaggio all'età imperiale, nelle quali questa memoria entra in conflitto con le strategie o gli interessi del potere politico, il quale non è uno spettatore neutrale rispetto alla ricostruzione del passato, ma su quella ricostruzione pretende di mettere bocca, pretende di dire la sua, pretende di imporre una versione di regime. dei fatti, che sia l'unica biografia autorizzata della Roma recente. E questo riguarda in maniera particolare il delicato momento di passaggio dalla Repubblica all'Impero. E quegli anni, quei decenni turbolenti nei quali il regime repubblicano, che ha dominato a Roma per cinque secoli, cade progressivamente in crisi, si avvita in un imbuto di decadenza dal quale...

diventa impossibile venire fuori fino a quando poi questa situazione di crisi non viene risolta con una soluzione di carattere autoritario, cioè con il passaggio di tutti i poteri nelle mani di un'unica figura, Augusto appunto, e con l'avvio di una nuova stagione che non è più una stagione repubblicana, per quanto Augusto ripeterà fino alla morte di non aver fatto altro che restaurare l'antica Repubblica aristocratica, ma diventa di fatto un nuovo regime di carattere monocratico. Ecco, quei decenni lì, quei decenni che hanno determinato il passaggio dalla Repubblica all'Impero, sono, come capite bene, decenni caldi, rappresentano il passato che non passa della storia di Roma della prima età imperiale. Passato che non passa, sapete bene, è una locuzione che è stata coniata in Germania a proposito del passato nazista, insomma, e della difficoltà di metabolizzare e di fare oggetto di discussione quel tipo di esperienza storica.

Anche la storia di Roma ha avuto il suo passato che non passa. Molto a lungo le vicende che hanno determinato la crisi della Repubblica e l'avvento dell'Impero sono state la pietra dello scandalo, la pietra di inciampo, il punto rispetto al quale il potere pretendeva di imporre una propria versione dei fatti e combatteva tutte le versioni che non si allineassero con questa, in particolare tutte le versioni che si presentassero con i toni della nostalgia filorepubblicana, dell'attitudine di chi mostrava di non aver gradito questo tipo di esito e suggeriva l'idea che la storia avrebbe potuto o avrebbe addirittura dovuto imboccare una strada diversa. E questa è la ragione per la quale nella... Roma della prima età imperiale del primo secolo dopo Cristo, noi assistiamo ripetutamente a episodi di censura, di censura intellettuale e anche di roghi di libri, come si diceva prima.

I roghi di libri nel nostro immaginario sono un fenomeno che si lega a età molto più vicine a noi. Probabilmente se ci venisse chiesto così su due piedi di citare un esempio di rogo di libri, penseremmo ai libri di Giordano Bruno, insomma. a fenomeni che riguardano appunto vicende molto più vicine a noi nel corso del tempo. In realtà il mondo romano conosce anch'esso i roghi di libri e a farne le spese sono soprattutto biografie storici appunto che il potere imperiale a vario titolo considera sgraditi. La più bella riflessione su questo argomento si trova nel capitolo iniziale di un'opera minore di Tacito.

massimo storico latino di età imperiale, contemporaneo di Svetonio, vissuto anche lui tra primo e secondo secolo dopo Cristo. Tacito esordisce sulla scena letteraria con la biografia del suocero agricola, che era stato anche un oppositore di Domiziano, l'ultimo esponente della dinastia Flavia, un imperatore tirannico, un imperatore che aveva imposto a Roma una sorta di cappa di piombo, un imperatore che pretendeva di farsi chiamare... dai suoi sudditi, perché tali di fatto erano, dominus et deus, signore e dio.

E dominus è una parola pesante a Roma, perché è la parola con la quale gli schiavi si rivolgono ai loro padroni. Quindi l'italiano signore non rende bene l'idea. Quando traduciamo questa parola latina dovremmo ricordarci che domine, domina, era il vocativo con il quale lo schiavo si rivolgeva appunto al suo padrone.

Per cui è... Persino peggio in qualche modo pretendere di essere chiamato Dominus che non Deus, Dio. Tacito è uno di quelli che fanno carriera sotto Domiziano, quindi in qualche modo sa bene di essere stato, se non complice, quantomeno acquiescente rispetto a questo regime, ma esce vivo dalle grandi purghe che hanno caratterizzato il quindicennio di Domiziano.

E fa il suo esordio sulla scena politica negli ultimissimi anni del primo secolo d.C. con la biografia di Agricola che si apre con una riflessione meravigliosa sul rapporto tra memoria e potere. Tacito dice abbiamo letto che autori come Aruleno Rustico e Regno Senecione, nomi che a noi dicono ben poco perché le loro opere appunto sono state distrutte, sono stati perseguitati per aver scritto biografie di oppositori del Principato, trase aperte.

il video Prisco, e che non soltanto si infierì sugli autori, ma sulle loro stesse opere, le quali vennero affidate ai triunviri affinché le bruciassero nel comizio e nel foro. I triunviri chi sono? Sono quelli che a Roma si chiamano i tres viri capitales, cioè sono i boia pubblici, sono dei magistrati minori che avevano lo sgradevole compito di eseguire le condanne capitali. Ed è curiosa questa cosa che la distruzione dei libri venga affidata.

ai boia pubblici, come se i libri fossero dei colpevoli di crimini, tanto quanto gli individui che li hanno scritti. Chi sono quindi questi due personaggi menzionati da Tacito? Biografi, ma biografi che scrivono la biografia di oppositori dei principi precedenti.

un ragionamento del genere, chi scrive la biografia di un oppositore del principato non può che essere un oppositore del principato a sua volta. E dunque questi biografi vengono uccisi, le loro opere vengono messe al rogo. Dopodiché Tacito passa a descrivere in estrema sintesi la vicenda di questo quindicennio di dominio di Domiziano che è alle sue spalle e dice la nostra generazione ha dato davvero una grande parte.

prova di sopportazione. Noi abbiamo fatto esperienza del punto fino al quale si può spingere il servilismo, mentre intanto i maestri di letteratura, di di retorica, di filosofia, venivano espulsi dalla città affinché da nessuna parte fosse dato di imbattersi in qualche cosa di onesto, dice Tacito, una sorta di terra bruciata fatta da Domiziano. E soprattutto, dice, siamo stati privati anche della possibilità di ascoltare e di parlare a causa delle spie di Domiziano sparse dappertutto. E dunque Tacito traccia un quadro... cupo sinistro di questa gigantesca metropoli.

Roma all'epoca dei Flavi aveva un milione di abitanti quindi era assolutamente cifra pazzesca evidentemente per le città del mondo antico. Atene al momento del suo apogeo aveva probabilmente tra i 40.000 e i 50.000 abitanti per avere un ordine di confronto insomma. La Roma all'epoca di Seneca quindi prima ancora di Domiziano ha all'incirca probabilmente un milione di abitanti, un'intera metropoli ridotta al silenzio. E'ridotta al silenzio perché Domiziano ha sparpagliato ovunque le sue spie, i suoi delatori, che sono pronti a captare qualsiasi manifestazione di dissenso, soltanto che queste spie si celano sotto volti anonimi o addirittura amici. E allora che cosa succede?

Succede che se io non so chi davvero mi sta di fronte, se io ho il timore che la persona con la quale sto commentando magari una vicenda politica, una decisione imperiale, possa essere qualcuno che mi sta di fronte, Uno che un attimo dopo andrà a riferire le mie imprudenti parole, insomma, in qualche segreta stanza del potere. Taccio, taccio, piuttosto taccio. E dunque il quadro descritto da Tacito è il quadro di una città ridotta al silenzio, nella quale più nessuno parla perché nessuno crede fino in fondo di potersi fidare di coloro ai quali potrebbe eventualmente esprimere i propri pensieri o manifestare le proprie... confidenze. Sembra, dicevo, un quadro devastante, eppure questa pagina di Tacito si conclude con una frase meravigliosa, sarebbe ancora più bello commentarla in latino, ma non fa niente, la traduciamo in italiano.

Tacito dice, insieme con la voce avremmo perso anche la memoria se solo dimenticare fosse il nostro potere tanto quanto tacere. che è una frase straordinariamente profonda. Quello che Tacito sta dicendo che cos'è?

Che un uomo può essere costretto a tacere, perché parlare o tacere è nella sua disabilità. disponibilità, rientra tra le cose che dipendono esclusivamente da lui. Se il potere politico è abbastanza oppressivo, se il tiranno sparge dappertutto le proprie spie appunto, se riesce a creare un clima di sfiducia collettiva nella quale nessuno più se la sente di esprimere un'opinione, ecco, è possibile ridurre un'intera città al silenzio.

Quello che però nessun potere può fare è costringere le persone a dimenticare. Per l'ottima ragione che dimenticare o ricordare non sono, dice Tacito, in nostra potestate. Non è qualche cosa che noi possiamo controllare. E allora che cosa viene fuori da questa pagina straordinaria? Viene fuori che in realtà questo quadro così a tinte fosche della Roma del tardo primo secolo d.C.

si conclude con una nota che non è una nota fosca, ma anzi è una nota luminosa. Quello che Tacito sta dicendo è che nella lotta tra la memoria e il potere, se uno guarda il breve termine, l'immediato, è chiaro che è il potere che vince. Perché il potere può zittire, il potere può perseguitare gli intellettuali, i letterati, il potere può bruciare le loro opere, può impedire che questi libri abbiano circolazione. Lo può fare, queste sono cose che il potere è in grado di fare.

Ma se noi... allardiamo il focus, se noi ci allontaniamo dal breve termine, dall'immediato e proviamo ad avere uno sguardo invece più ampio, bene, nel medio-lungo termine è la memoria che vince, non il potere. Perché la memoria è qualche cosa che neppure il più occhiuto dei poteri riesce a controllare, a manipolare.

La memoria è annidata in una zona della coscienza individuale nella quale non soltanto... Chi opera dall'esterno può arrivare, ma non può arrivare neppure il soggetto stesso che custodisce questa memoria. È quello che Tacito dice, non è il nostro potere, non lo possiamo fare neppure noi, quello di imporci di dimenticare qualcosa.

Figurarsi se lo può fare una forza che si muove dall'esterno. E la memoria che cos'è in ultima analisi? È la storia, è la storia della città. Tacito in qualche modo sta facendo anche un'operazione di grande autopromozione. Perché sta dicendo che sono gli storici ad avere l'ultima parola, non il potere politico che li perseguita.

Sono gli storici. E la cosa interessante è che nel momento stesso in cui Tacito dice questa cosa, contemporaneamente la sta facendo. Perché lui sta raccontando la storia di Agricola, che vi ho detto è il suocero di Tacito stesso, ma non la sta raccontando perché sta redigendo una sorta di storia della sua famiglia.

La sta raccontando perché Agricola era anche un uomo pubblico, che si era distinto in alcune importanti campagne militari nell'area della Britannia e che probabilmente, questa è la verità che Tacito fa affiorare negli ultimi capitoli della sua biografia, era stato eliminato, avvelenato da Domiziano perché Domiziano, come tutti i tiranni, non poteva tollerare intorno a lui la virtù. Questa è una caratteristica che secondo gli antichi... è propria di tutti i poteri tirannici.

Se c'è una cosa che i tiranni non sopportano è la gente di valore, perché la gente di valore costituisce una sorta di quotidiano rimprovero alla mediocrità del tiranno stesso. Dunque il tiranno è colui che tende a fare terra bruciata intorno a sé, a liberarsi di tutti coloro che gli possono fare ombra, semplicemente perché sono persone per bene. E dunque Domiziano è morto, ma Tacito è ancora lì.

a ribadire la sua verità e ad affidare la figura di Domiziano appunto all'infamia dei secoli a venire. Questa è l'idea che questo storico esprime. La memoria quindi è l'ultima parola e la memoria individuale è qualche cosa che è sottratto alla disponibilità del potere. Acceno soltanto ad un altro caso molto brevemente perché poi mi devo avviare alle conclusioni.

Negli ultimi anni del lunghissimo regno di Augusto, Augusto muore nel 14 d.C., in anni che oscillano tra l'8 e il 12 d.C., quindi siamo con un Augusto ormai più che settantenne, viene perseguitato un altro storico, titola Bieno. Della sua opera non sappiamo nulla, se non appunto che era un'opera animata da un nostalgico atteggiamento filo-repubblicano. Si racconta che un giorno... Mentre nel corso di una pubblica lettura in cui appunto stava mettendo a conoscenza del pubblico l'opera che veniva componendo, Tito Labieno si bloccò, riavvolse il rotolo di papiro, perché le opere degli antichi sono scritte sui rotoli, come sapete bene, e disse le cose che vengono dopo si leggeranno dopo la mia morte. Era perfettamente consapevole di aver scritto un'opera scottante, di aver scritto un'opera che avrebbe irritato il potere politico e così fu.

Naturalmente Augusto non si sporcò le mani in prima persona, era troppo smaliziato per commettere un errore di questo genere, mandò avanti alcuni sgherri che fecero il lavoro sporco di accusare l'abbieno di lesa maestà e fecero condannare a morte lui e al rogo la sua opera. Questa storia ci viene raccontata da un autore poco conosciuto della letteratura latina, Seneca il Vecchio, padre dell'assai più famoso Seneca il Filosofo, che fu anche precettore di Nerone, insomma, e che invece è personaggio ben altrimenti noto. Seneca il Vecchio ci racconta questa storia e alla fine di questo racconto, è l'unica fonte che ce la racconta, non fa mai il nome di Augusto, mai, perché Seneca fu un uomo estremamente prudente. Campò fino a 90 anni e oltre, anche per il fatto passando sotto il regno di Augusto di Tiberio e riuscendo addirittura a vedere gli esordi del regno di Caligola, anche grazie al fatto di essere un uomo sommamente prudente.

Racconta questa storia ma fa finta di prendere per buona la versione ufficiale, secondo la quale Labieno era stato rovinato da alcuni suoi nemici personali che avevano voluto incastrarlo. Il nome di Augusto non lo fa mai, ma qualsiasi lettore capiva che dietro la condanna di una figura di un senatore, di un personaggio di spicco, non poteva che esserci anche la mano del principe, anche se questo Seneca appunto non lo dice. Alla fine di questo racconto lui aggiunge, voglio riferire a una battuta di tale Cassio Severo, personaggio che peraltro Labieno detestava, il quale mentre i libri di Labieno venivano dati alle fiamme in seguito ad una decisione del Senato disse, ora però dovete condannare a morte anche me, perché io li so a memoria.

Io questi libri di Labieno li so a memoria. E allora vedete che siamo sempre di fronte alla stessa situazione di cui parlavamo prima, il conflitto tra memoria e potere. Finché ci sarà qualcuno che ricorderà un'opera condannata, il potere non avrà ancora vinto la sua battaglia, la censura non avrà ancora conseguito fino in fondo i suoi scopi. Perché la memoria dell'individuo è qualcosa che neppure... appunto il potere più oppressivo può riuscire fino in fondo a manipolare.

E allora avviamoci appunto verso la conclusione del nostro percorso, perché questa idea della memoria come estrema trincea, come ultimo spalto di resistenza nei confronti del potere che distrugge i libri, che perseguita gli intellettuali, che cancella la memoria, o meglio, che ne lascia sopravvivere un'unica versione edulcorata e così truccata ad uso e consumo del potere stesso. Ecco, questa idea che la memoria rappresenti questo è un'idea che torna a proporsi nella storia della nostra cultura, della nostra tradizione culturale. Alla metà circa del Cinquecento un irrequieto...

intellettuale meridionale Mario Galeota fu perseguitato dall'inquisizione per via delle sue simpatie luterane e gli vennero sequestrati tra l'altro i libri che possedeva perché erano libri scritti da autori a loro volta simpatizzanti della riforma protestante. Noi possiamo leggere gli atti del processo dell'inquisizione contro Galeota, perché quegli atti sono giunti fino a noi, e tra le cose che Galeota disse ce n'è una che mi sembra particolarmente importante citare in questa sede. Quando gli arriva la notizia che i suoi libri sono stati sequestrati, Galeota dice «Io non me ne curo niente, perché li ho in mente e non me le può levare nessuno da mente». E se me ponno proibire il leggere, non me il ponno levare dall'animo.

Ecco allora che ci troviamo di fronte ancora una volta ad una situazione che sembra del tutto simile a quella di Cassio Severo e Tito Labieno. L'inquisizione non ha ottenuto niente sequestrandomi quei libri, perché io quei libri li ho nell'animo, mi possono proibire di leggerli, ma non me li possono togliere dall'animo. Ed ecco che un millennio e mezzo più tardi, quando torna un potere che perseguita i libri, che li mette al rogo, che compila indici di libri che non possono essere letti, ecco che ancora una volta una delle vie possibili della resistenza nei confronti di questo potere censorio e oppressivo è rappresentato dalla memoria degli individui. C'è almeno un'altra vicenda che dobbiamo brevissimamente accennare e che sarà sicuramente già venuta in mente a tutti voi.

Quella di uno dei più famosi romanzi di fantascienza del Novecento, Fahrenheit 451, scritto, apparso nel 1951 negli Stati Uniti, ad opera di uno scrittore morto, tra l'altro pochi anni fa, Ray Bradbury. La società distopica, come oggi si direbbe, di Fahrenheit 451, è una società nella quale i libri si bruciano, appunto. Il romanzo si chiama così perché 451 gradi Fahrenheit sono la temperatura alla quale la carta prende fuoco. I vigili del fuoco esistono in questa società futura immaginata da Bradbury, ma servono non per spegnere gli incendi, ma per appiccardi e in particolare per distruggere i libri. E perché i libri devono essere distrutti?

Questo lo spiega molto bene il capo dei militi, dei vigili del fuoco, appunto, a Montag, il protagonista del romanzo, quando Montag comincia a coltivare dei dubbi sull'A. sullo sporco lavoro che lui e i suoi compagni fanno, perché i libri sono dei pericolosi seminatori di dubbi. I libri suggeriscono l'idea che non esiste un'unica verità, che forse le cose possono stare in maniera diversa, che forse su un determinato argomento, su qualsiasi argomento, esiste una pluralità di punti di vista e non c'è un'unica verità autorizzata.

E dunque i libri sono produttori di infelicità, perché i dubbi... Rendono le persone infelici, l'incertezza rende le persone infelici. È molto meglio creare una società nella quale invece esiste un'unica verità e soprattutto nella quale la cultura sia sostituita dall'intrattenimento.

Quando Bradbury pubblica questo romanzo, in Italia la televisione non è ancora arrivata, arriverà tre anni dopo. Negli Stati Uniti esisteva già da una quindicina d'anni, perché le prime trasmissioni televisive sono del 1936. Ma Bradbury immagina una società futura nella quale le pareti di tutte le case sono trasformate in altrettanti schermi televisivi che 24 ore su 24 mandano continuamente in onda cosa? Programmi appunto di intrattenimento futile, quiz nei quali sia facile per tutti trovare una risposta, informazioni, dati, bisogna imbottire la testa della gente di informazioni e soprattutto di informazioni traducibili in numeri. di informazioni che non siano controvertibili, perché già il fatto di fornire un'informazione che potrebbe essere così, ma anche in un altro modo, rischia di minare questo programma di sedazione collettiva che il potere descritto in questo libro di Bradbury intende portare avanti.

E allora che cosa succede? Succede che ad un certo momento il protagonista del romanzo si fa prendere dalla tentazione, vedendo una ragazza che legge con vorace interesse un libro, Fa quello che nessun censore dovrebbe mai fare, viene preso dalla curiosità di leggere quello che quotidianamente perseguita e viene catturato anche lui nel vortice del libro e allora non può più continuare a fare il mestiere che ha sempre fatto, diventa in qualche modo un traditore, un rinnegato, scappa dalla città, da questa gigantesca metropoli, in questa terra di nessuno che circonda appunto la città stessa. inseguito dagli elicotteri in una caccia all'uomo che naturalmente viene mandata in diretta televisiva, perché insomma, come monito di quello che succede a chiunque violi le norme della città, e in questa terra di nessuno si imbatte in altri fuggitivi come lui, in altri esuli come lui, i quali che cosa hanno fatto? Ciascuno di essi ha imparato a memoria un libro.

E anche a Montag viene chiesto di imparare a memoria un libro. Ecco. Anche in questa società futuribile, in questa società distopica appunto descritta da questo autore americano, la società che non coltiva la lettura ma anzi la reprime e che non preserva i libri ma anzi li distrugge, l'unica forma di resistenza è rappresentata dalle memorie di coloro che appunto conservano dentro di sé in un luogo inaccessibile anche agli elicotteri del potere la memoria.

culturale e collettiva. E oggi? Com'è la situazione oggi? Potremmo pensare che tutto questo appartenga ad un passato ormai definitivamente consegnato appunto al passato. L'ultimo importante rogo di libri, almeno nella nostra parte di mondo, è stato appiccato il 10 maggio del 1933 sulle scale dell'Università di Berlino dai nazisti che erano appena saliti al potere, il rogo della letteratura decadente.

la fiamma dell'uomo nuovo che doveva distruggere i residui della vecchia cultura. 20.000 volumi bruciarono quel giorno. Nel luogo nel quale venne acceso questo rogo, oggi, c'è una targa che riporta un verso del poeta Heine, del poeta ottocentesco, il quale diceva Là dove si bruciano i libri, prima o poi si finisce per bruciare anche gli uomini. E non c'è dubbio che questa terribile frase sia stata involontariamente e terribilmente profetica, perché quel regime che faceva il suo esordio sulla scena politica mondiale, bruciando i libri, dieci anni più tardi conoscerà il suo epilogo, bruciando esseri umani. Però quello è stato in qualche modo l'ultimo evento di questo genere, almeno, ripeto, nella nostra parte di mondo.

Oggi potremmo pensare che tutto questo appartenga ad un passato che non ha più nessuna chance di tornare. In Italia ci sono 5.000 case editrici, si pubblichano 60.000, mediamente, libri ogni anno, libri che nessuno più pensa, non dico a bruciare, ma neppure a censurare, e dunque potremmo pensare di vivere nel migliore dei mondi possibili, come direbbe il Candide di Voltaire, nel quale, insomma... l'accesso alla cultura, al sapere e al libro che ne costituisce tutto sommato, nonostante tutto ancora uno dei veicoli privilegiati, non conosca più alcun tipo di limitazione.

Io temo che questa analisi sia troppo ottimistica. Credo piuttosto che oggi esistano dei modi più sottili, ma forse persino più efficaci, di combattere contro i libri e contro quel sapere. seminatore di dubbi di cui i libri sono portatori. Ne fanno parte il taglio costante dei finanziamenti alla scuola, all'università e alla ricerca, ne fanno parte il confinamento dei programmi culturali in orari nei quali nessuno che faccia un lavoro normale sia in grado di seguirli, ne fa parte soprattutto quella sistematica, consapevole diffusione nel senso comune dell'idea secondo la quale si tratta.

con la cultura non si mangia, il sapere in fondo non è indispensabile perché anche coloro che ne sono palesemente privi poi scalano le vette del potere economico, del potere politico e così via, che leggere sia in fondo una cosa da sfigati, come direbbero i nostri figli, e che dunque in qualche modo... Ora, questo modo di combattere la cultura e i libri... Forse è persino più devastante rispetto ai roghi di libri. E poi almeno un cenno, visto che chi mi introduceva ne ha parlato, almeno un cenno vorrei fare al fenomeno dei nuovi censori. Questa espressione non è mia, di un importantissimo storico contemporaneo che si chiama Massimo Salvadori.

I nuovi censori che vengono da oltreoceano. Questa idea secondo la quale la letteratura del passato deve essere, se non rimossa, censurata, quantomeno espurgata, eliminando quelle parole o quelle espressioni che oggi contrastano con la nostra idea di ciò che è buono, sano e così via. E quindi si ripubblicano le opere di grandi autori della letteratura americana e mondiale, eliminando la parola brutto, o la parola grasso, o la parola nero, perché queste parole non...

possono andare bene per un lettore contemporaneo, forse senza avere la consapevolezza di fare esattamente la stessa cosa che faceva appunto l'inquisizione nel Cinquecento e nel Seicento, le edizioni espurgate, quelle che nel linguaggio della controriforma si chiamavano le rassettature, quando si pubblicavano edizioni nelle quali appunto espressioni o parole che potevano suonare pericolose o di critica nei confronti del dogma cattolico venivano accuratamente rimosse. mettendo in circolazione delle edizioni ripulite nelle quali appunto questi elementi disturbanti non ci sono più. Naturalmente anche i nuovi censori hanno delle ottime motivazioni, come le hanno avute del resto dei censori di tutte le epoche storiche. Eppure si fa fatica a non cogliere dietro questo atteggiamento la presunzione di una minoranza che si pretende neurologicamente sana, che ritiene invece fragili.

e bisognosi di protezione tutti gli altri e che quindi si è auto attribuita il diritto di stabilire che cosa possa andare o sia meglio che non vada nelle mani di tutti questi altri evidentemente sul presupposto che costoro non avrebbero da soli gli strumenti culturali e intellettuali per difendersi da contenuti in qualche modo disturbanti. Ma mi limito appunto soltanto a questo cenno perché sono un antichista e non voglio mettermi a fare un mestiere che non è il mio. Torno a Tacito, dal quale in qualche modo ho cominciato. Alla fine del suo resoconto di un altro processo contro un altro storico, Cremuzio Cordo, me ne aveva ricordato prima.

Storico anche lui, perseguitato in nome delle sue posizioni filo-repubblicane. Pensate che aveva definito Bruto e Cassio, cioè... Gli artefici, i leader della congiura anticesariana dell'Idi di Marzio li aveva definiti gli ultimi veri romani, in qualche modo scoprendo appunto le sue posizioni politiche.

Cremuzio Corrido viene processato sotto Tiberio, la sua opera viene messa al rogo, ma, dice Tacito, in realtà le opere continuarono a circolare, passate clandestinamente di mano in mano. E tra l'altro Cremuzio Cordo venne riabilitato sotto il successore di Tiberio, Caligola, per cui quelle opere che erano state salvate grazie a questo circuito clandestino poterono tornare alla luce e riprendere a circolare. Dopo aver raccontato questo episodio, Tacito dice, perciò mi piace ridere, è proprio questo il verbo che usa, ridere della stupidità di quanti sulla base del potere di cui godono nel presente. credono di poter controllare anche la memoria delle età future.

Quelli che in nome del potere di cui godono nel presente credono di poter decidere che cosa il futuro dovrà o non dovrà ricordare. Oggi vorremmo avere le stesse certezze di Tacito ed essere convinti che ci sia ancora qualcosa da ridere. D'altra parte è anche vero che serate come questa sono una piccola scintilla per credere che l'inverno della barbarie non abbia ancora vinto la sua battaglia.

Grazie.