La storia della lingua e letteratura italiana ha tanti protagonisti, ma ce n'è uno che ha dato un contributo fondamentale alla sua evoluzione. Pietro Bembo. Mai sentito? Non mi sorprende, Bembo non è molto conosciuto dal grande pubblico.
Ma parliamo di un individuo che ha determinato per sempre il corso dell'italiano e ha avuto la capacità di rendere ancora più grandi i grandi autori del Trecento. Le tre corone fiorentine. Dante, Petrarca e Boccaccio di cui abbiamo parlato, grazie a un'intuizione vincente. La sua importanza è tale che alcuni gli conferiscono il titolo di quarta corona. Ciao a tutti, questo è Podcast Italiano, un canale per chi impara o ama l'italiano.
Trovi la trascrizione di tutto quello che dico in questo video sul mio sito. Ti lascio il link in descrizione. E attiva i sottotitoli se ne hai bisogno. Per comprendere l'importanza di Bembo, dobbiamo prima dare un'occhiata al contesto in cui viveva, e in particolare alla storia dell'italiano del IV e del V. Nel IV.C. i testi legati alla letteratura e alla cultura venivano scritti molto più spesso in latino, anziché in italiano, perché, lo sapete, no?
Il latino era considerato la lingua più alta, più nobile, più adatta a svolgere i compiti più importanti. Il latino... era figo, un po'come lo è oggi l'inglese. Nella seconda metà del secolo, però, la lingua volgare inizia a guadagnare terreno. Ricordiamo che con lingua volgare non mi riferisco alle parolacce, a quelle dedicherò un video molto presto, bensì all'insieme delle lingue derivate dal latino e parlate in Italia, cioè le lingue parlate dal volgo, dal popolo, dalla gente.
Ecco, il volgare nel corso del Quattrocento comincia a essere percepito in modo diverso, perché comincia a scomparire l'idea che non abbia dignità culturale. Il tempo passa e, entro la fine del secolo, non è più il latino a dominare, bensì il volgare. Ciò significa che ciascuno scrive sulla base della propria lingua locale, sulla base di quello che oggi chiameremmo dialetto. Non si tratta quindi del solo fiorentino, ma delle lingue di tutta l'Italia.
A volte i tratti più regionali vengono rimossi, ma questo è un esercizio che soltanto alcune persone colte riescono a realizzare, e comunque in modo non sistematico, anche perché non c'è una lingua standard. Nel Cinquecento si avverte la necessità di avere una lingua comune a tutto il territorio della penisola. I vari volgari vanno bene per la comunicazione regionale, ma ora è necessaria una soluzione adatta a un territorio più vasto, oggi diremmo uno standard.
andare da punta. Per di più, a inizio Cinquecento si diffonde in modo vastissimo una nuova tecnologia, la stampa. E anche gli editori necessitano di un modello linguistico coerente che non cambia a seconda della regione che si considera.
Immaginate se oggi non sapessimo se usare la versione siciliana, lombarda o toscana di una parola. Sarebbe un incubo. Esplode quindi un dibattito molto acceso.
Quale deve essere questo modello? Questo dibattito è conosciuto come questione della lingua. In parte si risolverà proprio nel Cinquecento, con Bembo, e in parte rimarrà aperto per i successivi 400 anni, quasi fino a oggi. Il dibattito è così famoso che al proposito si trovano tantissimi libri, anche destinati al grande pubblico, come questo di Claudio Marazzini. Ma già nel Cinquecento, ormai, non si può tornare indietro.
Gli intellettuali e la società dirigente non possono più rinunciare ad avere una lingua comune. Si formano dunque tre schieramenti, tre fazioni, ciascuna delle quali propone una soluzione diversa. Il primo schieramento, quello della lingua cortigiana, dice che bisognerebbe prendere esempio dalla lingua delle corti, perché lì si incontravano gli intellettuali.
e i membri della classe dirigente provenienti da tutta la penisola. La lingua era quindi meno dialettale e più cosmopolita, e per di più era anche ritenuta elegante. Ciò nonostante, era una lingua viva, effettivamente parlata e nata da bisogni concreti, quindi adatta alla comunicazione di ogni giorno.
Per di più, ai sostenitori della lingua delle corti non dispiacevano gli spunti provenienti dal latino e dalla lingua letteraria toscana, che costituivano al tempo le due fonti più autorevoli, le due lingue più sexy sul mercato. Poi c'erano quelli che sostenevano il fiorentino vivo, cioè parlato, partendo dal presupposto che la lingua colta di tutta la penisola è già influenzata dal fiorentino dei gra... scrittori del Trecento, cioè Dante, Petrarca e Boccaccio.
Insomma, è da Firenze che bisogna ripartire, ma non in direzione del Trecento, bensì del presente, cioè di quell'epoca. Bisognerebbe cioè prendere esempio dalla lingua fiorentina del Cinquecento, che in duecento anni ovviamente era un po'cambiata. Il terzo schioramento è quello del fiorentino arcaizzante, cioè del fiorentino che... resta voltato verso il passato di un fiorentino arcaico, e in particolare del fiorentino delle tre corone.
Non ci si pone proprio il problema della comunicazione quotidiana, perché per quello scopo ci sono i vari volgari regionali. Tutto ciò che conta è avere una lingua letteraria, artistica, per la cultura e per l'amministrazione. E l'unico modo per far sì che si imponga davvero è far leva sul prestigio dei grandi autori.
È proprio questa la tesi di Pietro Bembo. Potremmo dire make Fiorentino great again? No, non potremmo dirlo.
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rigore. Entra nel mondo culturale volgare quando collabora con il grande editore veneziano Aldo Manuzio, che al suo tempo era uno dei più importanti maestri di quell'arte rivoluzionaria e nuovissima che era la stampa. Per Manuzio, Bembo progetta una collana di classici italiani, curando tra le altre cose un'edizione di Petrarch e una di Dante.
A un certo punto però Bembo decide di abbandonare Venezia e di cambiare lavoro, per cercarne uno che gli permetta di dedicarsi a a tempo pieno ai suoi studi. Prima va alla corte di Urbino, nelle moderne marche, poi decide di fare carriera in ambito ecclesiastico e ci riesce, diventerà persino cardinale. Poi nel 1525 abbiamo l'evento più importante di tutti.
Vengono pubblicate le prose della Volgarlingua, cioè l'opera con cui Bembo espone e mette in pratica la sua tesi, cioè la tesi del fiorentino arcaizzante. L'opera, di cui parleremo tra poco, diventa subito popolarissima, perché fornisce finalmente una soluzione concreta, verosimile e completa alla questione della lingua. Sull'onda del successo, negli anni successivi Bembo ripubblica vecchie opere e ne pubblica di nuove, così da mettere in in pratica la sua tesi sul piano linguistico.
Insomma, non dice semplicemente che bisognerebbe scrivere in un certo modo e seguire un certo esempio. Lo fa, mostra chiaramente come applicare tutto quello che dice nelle prose. Il suo successo letterario è molto grande e presto Bembo diventa una celebrità.
Infine il nostro Pietro muore nel 1547, lasciandoci un'eredità incredibile. Ma perché proprio Bembo riesce a ottenere così tanto successo? Perché è la tesi del fiorentino arcaizzante a vincere, sancendo così la sconfitta della lingua cortigiana e del fiorentino vivo? La risposta sta in un'idea vincente. Affinché un modello linguistico si imponga su tutti gli altri, deve trovarsi nel giusto equilibrio tra idealità e imitabilità.
Deve essere un modello ottimo, ideale, che i parlanti, o scriventi più che altro in questo caso, già considerino praticamente perfetto, ma allo stesso tempo deve essere raggiungibile e imitabile. Insomma, è inutile proporre un modello perfetto ma completamente astratto perché nessuno riuscirà mai a raggiungerlo. non avendo degli esempi concreti. Ma è altrettanto inutile proporre un modello semplice e facilmente imitabile, ma che non sia considerato ottimo, perché nessuno lo imiterebbe. Già quando dibatte a proposito della lingua latina, Bembo dice che è inutile prendere esempio da tutti i grandi scrittori, rubando qualcosa da ciascuno, un po'di qua e un po'di là.
Visto che dobbiamo imitare, allora facciamolo bene e scegliamo solo il meglio del meglio, la creme de la creme. Bembo dunque applica la stessa... stessa riflessione alla lingua volgare e mette sotto i riflettori Petrarca, che in assoluto dovrà essere il massimo punto di riferimento in particolare per la poesia, e Boccaccio, riferimento principale per la prosa. Questi Due autori offrono un modello alto, imitabile e al contempo considerabile e considerato come il meglio del meglio che ci sia in italiano. Manca qualcuno, vero?
Ma chi? Ah, sì, Dante. Anche Dante è un autore di prim'ordine, ma il suo uso della lingua per Bembo è troppo vario, perché passa dalle parolacce, dal turpiloquio, come m***a e puttana, alle parole più delicate e nobili. Bembo, invece, vuole selezionare solo le parole migliori, più eleganti e perfette. Ed ecco perché è un grandissimo ammiratore di Petrarca, che scriveva esattamente con questo proposito.
E per gli stessi motivi non era un fan di Dante. Tutta questa riflessione, già a partire dal 1512, viene messa nero su bianco da Bembo, che per anni si impegna a perfezionare la sua opera il più possibile, fino alla pubblicazione nel 1525. Stiamo parlando delle pro... della volgarlingua, che verranno ancora ritoccate e ripubblicate nel 1538. A proposito, non è questo il vero titolo scelto da Bembo? Volete sapere qual è il vero titolo? Prose nelle quali si ragiona della volgarlingua scritte al cardinale De Medici, che poi è stato creato a sommo pontefice e detto Papa Clemente VII, divise in tre libri.
Insomma, non aveva forse il dono della sintesi, ecco, su YouTube questo titolo non funzionerebbe. L'opera ha la forma di un dialogo, mai avvenuto in realtà, ma che Bembo immagina per rendere più efficace il suo ragionamento, per autocriticarsi tramite la voce di alcuni personaggi e per difendere le proprie idee. con altri personaggi ancora.
Questo dialogo sarebbe avvenuto a Venezia, tra Giuliano De Medici, membro di un'importantissima casata toscana, Federico Fregoso, un religioso amico di Bembo, Ercole Strozzi, poeta latino di Ferrara, e infine Carlo Bembo, fratello minore di Pietro. Lo chiameremo amichevolmente Carlo d'ora in poi. L'opera viene divisa in tre libri. Nel primo vengono esposte le origini e le caratteristiche del volgare, per poi passare alla tesi del fiorentino arcano.
arcaizzante e dell'importanza di imitare i migliori scrittori. Nel secondo si spiega come usare al meglio la lingua, anche sul piano retorico e stilistico. Bembo espone la propria teoria estetica, la sua idea di lingua bella e la sua idea di linguaggio.
e armoniosa, per poi spiegare perché proprio i modelli di Petrarca e Boccaccio sono perfetti per apprenderla. Infine si spiegano le ragioni per cui Petrarca è preferibile a Dante. Nel terzo libro, invece, troviamo una vera e propria grammatica di riferimento.
Pensate al sollievo che dovettero provare i poveri uomini colti dell'epoca, in un'epoca in cui purtroppo non c'erano né internet né podcast italiani, quando finalmente ebbero a disposizione una guida per l'uso della lingua dei grandi. autori del Trecento. Vorrei mostrarvi concretamente in che cosa consista questa grammatica. Leggiamo un breve passaggio tratto dal terzo libro. Nella seconda voce del numero del meno è solamente da sapere che ella sempre nella i termina, se non quando i poeti la fanno alcuna volta, nei verbi della prima maniera, terminare eziandio nella e, siccome fel Petrarca che disse, hai crudo amor, ma tu allor più mi informe a seguir d'una fera che mi strugge.
la voce, i passi e l'orme. Bembo sta parlando dei verbi che ha presentato nelle sue varie maniere, cioè con le sue varie desinenze, are, ere e ire. Ci dice che nella seconda voce del numero del meno, cioè alla seconda persona singolare, diremmo oggi, cioè tu, la parola finisce sempre in i.
Pensate a mangi, mangiavi, mangeresti, mangiassi, mangerai e così via. Ci fa anche notare però che a volte i poeti usano anche iniziani. questa ve la potete rivendere se volete sembrare fighi, la desinenza è, come Petrarca, che scrive La forma normale sarebbe Ma Petrarca usa che appunto Bembo definisce una variante poetica. Notiamo quindi che Bembo dà già una forma precisa alle forme dell'italiano. le colloca in categorie, sottolinea le eccezioni, distinguendo i vari registri, tra cui quello poetico.
Molte delle prescrizioni grammaticali di Bembo riguardano forme che coincidono con quelle che usiamo ancora oggi in italiano e che hanno avuto la meglio su F. Forme che si usavano ma che Bembo decide di scartare. A lui dobbiamo il successo delle uscite del congiuntivo imperfetto.
I, I, E. Io dicessi, tu dicessi, ma lui, lei dicesse. Oppure il condizionale in EI. Amerei, farei, direi. Al posto del poetico, ma non toscano, IA. Amaria, faria, diria.
Oppure se al congiuntivo dei verbi dare e stare abbiamo le forme con la I, DIA e STIA e non le più antiche DEA e STEA, ed entrambe le opzioni tra l'altro si incontrano nei testi delle tre corone, questo è proprio grazie a Bembo che privilegia la forma con la I. Ci sono anche casi in cui, per qualche motivo, Bembo ci stupisce e consiglia la forma più moderna, quella del fiorentino parlato nella sua epoca, anche andando contro all'uso delle tre corone. Per esempio prescrive DIECI al posto di DIECE. la forma che era preferita di gran lunga dalle tre corone, e anche in questo caso la sua indicazione si è rivelata vincente.
Oggi diciamo dieci. Certo, ci sono casi in cui le sue prescrizioni oggi suonano arcaiche, ma sono la minoranza. Notiamo anche come le prose non costituiscano una grammatica pesante fatta di liste, di tabelle, di termini tecnici. Ovviamente oggi lo sarebbero, ma dobbiamo contestualizzare.
Al tempo c'erano molte meno risorse per l'apprendimento rispetto a oggi. Addirittura, per essere quanto più chiaro e meno tecnico possibile, BEMB non usa nemmeno i termini maschile e femminile, bensì i più semplici DEL MASCHIO e DELLA FEMMINA, come anche invece di singolare e plurale NUMERO DEL MENO e NUMERO DEL PIU. Il tutto amalgamato in un dialogo che in qualche modo scorre come una narrazione.
Se pensiamo invece alla lingua su cui cui Bembo si è basato per costruire la sua grammatica, è interessante leggere la risposta che nel primo libro il fratello Carlo, che appunto rappresenta l'opinione di Pietro Bembo, dà a Giuliano De Medici. Ascoltiamo direttamente Carlo in lingua originale e a schermo lascio la traduzione in italiano moderno. Debole e arenoso fondamento avete alle vostre ragioni dato, se io non mi inganno Giuliano, dicendo che... Perché le favelle, cioè le lingue, si mutano e gli si dè sempre a quel parlare che è in bocca delle genti quando altri si mette a scrivere, appressare e avvicinare i componimenti, con ciò sia cosa che, d'esser letto e inteso dagli uomini che vivono, si debba cercare e procacciare per ciascuno. Perciò che, se questo fosse vero, ne seguirebbe che a coloro che popolarescamente scrivono Maggior loda si convenisse dare che a quelli che le scritture loro dettano e compongono più figurate e più gentili.
E Virgilio meno sarebbe stato pregiato che molti dicitori di piazza e di volgo per avventura non furono, con ciò sia cosa che egli assai sovente nei suoi poemi usa modi del dire in tutto lontani dall'usanza del popolo, e costoro non vi si discostano giammai. La lingua delle scritture, Giuliano, non dè a quella del popolo accostarsi, se non in quanto accostandovi si non perde gravità, non perde grandezza. Che altramente ella di scostare se ne dè e di lungare quanto le basta a mantenersi in vago e in gentile stato.
La lingua scritta, insomma, secondo Bembo, deve avere un modello autorevole, prestigioso, e quel modello si trova, se per esempio parliamo di lingua latina, nei grandi autori come Virgilio. e in italiano invece in Petrarca e in Boccaccio. Non bisogna invece avvicinare i testi al modo di parlare della gente comune, perché così diventerebbero più rozze e meno aggraziate.
E questa idea funziona alla grande, perché è più facile vendere il modello di Petrarca e Boccaccio quando gli uomini di cultura sono già convinti loro stessi che questi due autori siano tra i migliori. Secondo Bembo, la lingua cortigiana è ridicola. Perché non è qualitativamente paragonabile ai grandi.
E la lingua del popolo, invece, deve restare tale, una lingua per la comunicazione, che non è fatta per scrivere bene. Solo una lingua è adatta alla buona scrittura. Ed è la lingua dei più grandi autori, dei grandi tra i grandi. Con questo viaggio abbiamo capito che la storia della lingua italiana nel Cinquecento inizia a guardare al passato, perché si rivolge alle forme del Trecento ed è anche classicistica, perché è legata all'imitazione dei grandi modelli.
Vince l'idea secondo cui la lingua del popolo cambia sempre ed è quindi più fraintendibile e meno efficace sul lungo termine. La lingua dei grandi autori, invece, a suo modo è destinata a durare per sempre. E questa idea di guardare i grandi del passato ha avuto un'influenza sulla letteratura italiana che è durata per secoli e secoli dopo Bembo.
Bembo ha avuto il merito di aver messo insieme tutti i pezzi del mosaico, di aver illustrato approfonditamente la sua teoria, di aver detto in modo convincente che le altre teorie erano in errore, e anche di aver fatto funzionare la propria teoria, su larga scala. Il piano ha funzionato alla grande e Bembo con la sua opera diventa immortale. Certo, quasi nulla in realtà di ciò che Bembo propone è una creazione completamente originale. Petrarca e Boccaccio erano stati già proposti come modelli in passato, e il primato della lingua letteraria era già stato teorizzato. Bembo non è stato il primo a scrivere una grammatica della lingua toscana, perché il primato va all'umanista Leon Battista Alberti, che circa 80 anni prima aveva scritto la sua grammatichetta, rimasta però inedita.
Che tra l'altro, se vogliamo, era in un certo senso più moderna, almeno per la nostra sensibilità, di quella del Bembo, visto che descriveva il fiorentino del suo tempo, del Quattrocento, e non imponeva modelli arcaici come fa Bembo. Era più descrittiva e meno... prescrittiva. Ma Bembo non è nemmeno il primo ad aver scritto una grammatica che è stata effettivamente stampata. Qui il primato va alle regole grammaticali della volgarlingua di Giovanni Francesco Fortunio, pubblicate nel 1516, nove anni prima delle prose di Bembo.
Anche questa, tra l'altro, è un'opera ispirata agli autori del Trecento, sebbene molto diversa nell'impostazione rispetto a quella di Bembo, molto più schematica, con liste di forme da usare. Tra l'altro Fortunio accusò Bembo di avergli copiato la grammatica. Accuse che Bembo rigirò a sua volta a Fortunio, accusandolo di aver copiato un suo libretto che già era in circolazione da qualche decennio. Comunque, come siano andate veramente le cose forse non lo sapremo mai. Ma resta il fatto che la grammatica di Bembo è bella meglio ed ebbe un'influenza duratura.
La nostra storia però non si ferma qui. La questione della lingua sarebbe andata avanti. Il dibattito... si sarebbe protratto fino a oggi.
Tante altre teorie verranno proposte, ma alla fine il modello di Bembo rimarrà il più seguito. Per questo, per secoli, la lingua scritta sarebbe stata pesantemente influenzata dal modello di Petrarca e di Boccaccio. Dobbiamo ancora comprendere però perché questa lingua colta sia tutt'oggi così simile alla nostra.
Per questo ti do appuntamento ai prossimi video, fammi sapere se ti stanno piacendo i video di questa serie e... Se avevi mai sentito parlare della figura di Pietro Bembo. Ah, ti ricordo di iscriverti alla lista d'attesa del mio corso intermedio-alto per assicurarti condizioni speciali quando ci sarà la prevendita.
Trovi il link qui sotto. Alla prossima!