«Ho una volontà di cantare così veemente che i versi nascono spontanei dalla mia anima come le schiume delle onde. In questi giorni, in fondo alla mia barca, ho composto alcune Laudi che sembrano veramente figlie delle acque e dei raggi... Sento che in un mese o due potrei d'un fiato, comporre tutto il volume.» In una lettera del luglio 1899 all'editore Giuseppe Treves, Gabriele D'Annunzio parlava in questo modo delle liriche di «Alcyone», il terzo libro delle «Laudi» che fu pubblicato nel 1903, e che rappresenta per i critici il suo capolavoro poetico. Il libro venne composto a partire dal 1899 in circa tre anni, durante la permanenza dello scrittore in Toscana, quando dimorava alla Capponcina. Il paesaggio e la natura toscana fanno da sfondo alle poesie e ne costituiscono in un certo senso l'essenza. «Alcyone» si presenta come un momento di «tregua del superuomo», che si colloca idealmente dopo l'impegno di «Maia» ed «Elettra», i primi due libri delle «Laudi». Non a caso, «La tregua» è il titolo del testo che apre l'opera. «Alcyone» è una raccolta di 88 liriche in metro vario, divise in cinque sezioni che corrispondono ad altrettanti momenti di un'estate, dall'inizio di giugno fino a metà settembre. Il libro delinea quindi un viaggio ideale nell'estate della Toscana. Le cinque sezioni sono intervallate da quattro componimenti intitolati «Ditirambi», come i canti greci che venivano intonati durante i riti orgiastici di Dioniso. Questo è uno dei temi dell'opera, il vitalismo panico che ricerca la fusione con la natura. Anche la scelta della stagione estiva non è casuale, poiché essa coincide con il massimo vigore fisico e naturale, tipico degli slanci del cosiddetto «superuomo». Il paesaggio toscano fa da sfondo al racconto, per la sua bellezza e ricchezza culturale. Il richiamo alla tradizione classica e al mito è costante in tutto il libro, a cominciare dalla prima sezione in cui ci sono rimandi anche alla letteratura del '200 e a san Francesco, specie ne «La sera fiesolana», nonché a Dante, come ne «La beatitudine». Queste liriche descrivono la campagna di Firenze e dei dintorni, ad esempio in «Lungo l'Affrico», che è un affluente dell'Arno. C'è attenzione anche al lavoro contadino, come ne «Le opere e i giorni», il cui titolo rimanda al poema greco di Esiodo. La seconda e la terza sezione si svolgono invece tra la foce dell'Arno e quella del Serchio, nel progredire dell'estate, e includono alcune delle liriche più celebri della raccolta. Tra queste, merita una citazione particolare «La pioggia nel pineto». Immerso nella natura di Marina di Pisa, il poeta si rivolge a una figura femminile di nome Ermione, probabile allusione a Eleonora Duse con cui all'epoca aveva una relazione. La invita a tacere e ascoltare la musica prodotta dal temporale che li ha sorpresi. La lirica propone suggestioni sonore e ritmiche, giocando con un lessico prezioso e raffinato. L'io lirico ricerca una fusione con gli elementi naturali, mentre il rumore della pioggia sulle piante sembra una sinfonia prodotta da mani invisibili. Particolare rilievo assume in questa parte del libro la figura mitica di Glauco, il pastore della Beozia che si trasformò in una creatura marina dopo aver mangiato un'erba prodigiosa. A lui è dedicata «Terra, vale!», che chiude la seconda sezione, e una corona di nove testi nella terza. Glauco è simbolo dell'individuo che muta il proprio essere e si trasfonde nella natura, come il superuomo. Il personaggio è tratto dalle «Metamorfosi» di Ovidio, come la personificazione dell'estate evocata in «Stabat nuda Aestas», che chiude la terza sezione. Quella seguente si apre con «Versilia», testo in cui una ninfa boschereccia erompe dalla corteccia di un albero, per chiedere a un uomo di offrirle la pesca che sta sbucciando. È un tema ancora ovidiano, ma riletto in chiave originale. La quarta sezione vede il declinare dell'estate, tema che si lega alla consapevolezza dello scorrere del tempo, e notevole è il ciclo dei «Madrigali dell'estate», undici liriche pervase da una sottile malinconia e impreziosite da immagini raffinate. La tristezza domina anche l'ultima sezione, aperta proprio da una lirica con questo titolo, e in cui è interessante la figura di Undulna, la divinità delle onde marine che preannuncia l'autunno e che compare in alcune poesie. Molto famosa in questa parte del libro la lirica «I pastori», la prima delle sette formanti il ciclo «Sogni di terre lontane». Rievoca la transumanza dei pastori abruzzesi, dall'Appennino verso il Mare Adriatico alla fine dell'estate, a settembre. La poesia è dedicata alla terra natale dell'autore e offre una rappresentazione letteraria della vita primitiva dei pastori, invidiata dal poeta in quanto irraggiungibile. Molto prezioso il lessico, come appare in questi versi. Il libro si chiude con la lirica «Il commiato», che vuol essere un ultimo saluto dell'autore alla Versilia e alla Toscana tutta, dalla quale è prossimo ad allontanarsi. Il testo è una lunga rassegna di luoghi celebri, e vi è anche un riferimento a Giovanni Pascoli. Il poeta romagnolo viveva già a Castelvecchio, in Lucchesia, e aveva stretto amicizia con D'Annunzio. Questi lo ricorda come «figlio di Vergilio», alludendo alla sua conoscenza della letteratura classica, e cita alcuni passi dei suoi «Poemi conviviali». «Alcyone» riscosse enorme successo sin dalla prima apparizione, consolidando la fama di D'Annunzio che già era grande. Fu anche l'ultima importante opera poetica da lui prodotta, anche perché il progetto delle «Laudi» fu gradualmente abbandonato. Il libro esercitò una profonda influenza su molti poeti del primo '900, incluso Eugenio Montale la cui prima raccolta, «Ossi di seppia», si ispira in parte ad «Alcyone». Essa descrive infatti l'estate, anche se il paesaggio è quello brullo e arido della Liguria. Lo stesso titolo del libro di Montale deriva da «Alcyone», dal terzo ditirambo in cui c'è l'immagine dell'osso di seppia che biancheggia sul lido. Anche il linguaggio richiama quello dannunziano, anche se Montale esprime una figura di letterato molto diversa.